programma e trame: lunedì 16 sera
MARIA ZEF
Vittorio Cottafavi, 1981, 122'.
Regia: Vittorio Cottafavi; soggetto: dal romanzo di Paola Drigo; sceneggiatura: Siro Angeli, V. Cottafavi; fotografia: Nando Forni; montaggio: Paolo Mercandini; interpreti: Renata Chiappino, Neda Meneghesso, Anna Bellina, S. Angeli, Maurizio Scarsini, Cesare Bovenzi; produzione: RAI Sede Regionale per il Friuli-Venezia Giulia; origine: Italia, 1981; formato: 16mm, col.; durata: 122'. Copia 35mm da Cineteca del Friuli.
TRAMA:
Dal romanzo (premio Viareggio 1937) di Paola Drigo: una ragazza, una bambina, un giovanotto, uno zio e un cane sono, sullo sfondo dei monti della Carnia, gli elementi di una storia di poveri, umiliati e offesi, che si conclude con un gesto tragico.
«Per Vittorio Cottafavi Maria Zef doveva significare qualcosa che va al di là del suo riconosciuto valore letterario, se ha potuto covare per quarant'anni il progetto di trarne un film. Io mi rammaricavo di non aver avuto occasione di leggere il copione, a suo tempo, anche perché lo si diceva ispirato a una vicenda realmente accaduta in Carnia. Mi interessava tra l'altro constatare se l'autrice fosse riuscita a rendere verosimile il vero, il che comporta difficoltà che forse l'opera di pura invenzione non presenta. Quando mi si è proposto di sceneggiare il romanzo, non mi sono occorse molte pagine per consentire alla genuina evocazione di un ambiente e di personaggi che mi erano abbastanza familiari, essendo io stesso nato e cresciuto in un piccolo paese carnico.[...] La nostra trasposizione televisiva non ha richiesto radicali interventi, oltre quelli normalmente indispensabili per ogni operazione del genere. Eliminando certi indugi che rallentano l'azione, specie nella prima parte, abbiamo tratteggiato con lineamenti più precisi la figura di Rosute, e approfondito il rapporto affettivo tra le due sorelle, per rendere umanamente più comprensibile, se non giustificabile, il gesto finale di Mariute. Abbiamo di proposito escluso dai moventi possibili la paura di essere stata contagiata e la ripetizione della violenza, mentre abbiamo inserito ex novo alcune scene incentrate sul Natale, alla cui ricorrenza l'autrice non dedica neppure una riga, sebbene la storia si svolga nei mesi invernali. Probabilmente avrà riversato sul personaggio il proprio confessato agnosticismo, dimenticando che nei Carnici il sentimento religioso non è meno vivo che altrove perché rifugge da ostentate manifestazioni esterne. Lo è anche in Barbe Zef, che patisce le sue colpe più di quanto fatichi ad ammetterle, e lamentando l'assenza di Dio, ne invoca la presenza, magari con le bestemmie. Devo la parte di protagonista maschile, in Maria Zef, all'amichevole sopraffazione del regista, il quale vedeva in me le phisique du rôle, come se questo bastasse: è il mio alibi per addossare a lui il merito o il demerito del risultato».
Siro Angeli, Un'umanità lacerata ma non soffocata, in Vittorio Cottafavi, Maria Zef, «Quaderno Rai», n. 4, RAI, Udine 1981
«Il romanzo della Drigo è in lingua italiana, con incursioni nel dialetto; il film, sceneggiato in collaborazione con Siro Angeli, è in lingua friulana. Non ci sono attori professionisti, solo personaggi presi dalla realtà. Il tono sommesso del racconto, girato fra le montagne intorno a Forni, monta fino a una temperie da tragedia greca. È come se un progetto letterario d'impronta verista, di quelli cari al cinema di Soldati e Castellani negli anni in cui debuttò Cottafavi, venisse ripreso con la consapevolezza antropologica del cinema contadino anni Settanta (il riferimento a L'albero degli zoccoli è evidente). E in più il regista immette nell'operazione la sua ricca esperienza di rivisitatore televisivo dei classici, la capacità di scandagliare il buio delle coscienza di personaggi rozzi solo in apparenza. Vedrete come si trasforma, si illumina e si spegne il volto di Renata Chiappino, che sembra quello di una montanara qualsiasi; nel finale, quando innalza l'accetta sullo zio addormentato la protagonista diventa addirittura una versione ladina di Elettra. Si potrà trovarla vecchio stile, ma noi abbiamo ammirato la discrezione con cui Cottafavi fa svolgere fuori scena gli episodi brutali: dopo tanto falso sangue nei film, sorprende riscoprire la terribilità del segno allusivo. E il personaggio di Barbe Zef, affidato con scelta geniale allo stesso Siro Angeli, è degno di entrare nella storia degli "attori naturali". Valligiano dal volto inciso come di legno, scarso di parole, chiuso e cupo, sulle prime potrebbe anche apparire un burbero benefico; per poi rivelare, in una progressione di indizi molto calibrata, la natura di mostro; e infine denudando, in un estremo risvolto, la sua profonda dolente umanità di povero diavolo. Quando dice: "Ognùn al sa di sé. Bisogna provâ a essi dentri di ce ch'a nussuccet... I faz a no son mai come ch'a samein a chei altri..." (che significa, come si legge nei sottotitoli: "Ognuno sa di sé. Bisogna provare a essere dentro a ciò che ci succede. I fatti non sono mai come sembrano agli altri") si pensa alla metamorfosi dell'assassino Peter Lorre nel finale di M, allo smontaggio dell'orco Riccardo III fra le mani sapientissime di Laurence Olivier».
Tullio Kezich, Mariute, donna di ferro, «La Repubblica», 21 novembre 1981.
alle 23:05
I CENTO CAVALIERI
Vittorio Cottafavi, 1964, 115'.
Regia: Vittorio Cottafavi; soggetto: V. Cottafavi, Giorgio Prosperi, José María Otero; sceneggiatura: V. Cottafavi, J. Otero, G. Prosperi, Enrico Ribulsi, José Luis Guarner; fotografia: Francisco Martín; montaggio: Maurizio Lucidi; musica: Antonio Pérez Olea; interpreti:Mark Damon, Antonella Lualdi, Arnoldo Foà, Gastone Moschin, Wolfgang Preiss, Salvatore Furnari, E. Ribulsi; produzione: Domiziana/PROCUSA/International Germania Film; origine: Italia/Spagna/RFT, 1964; formato: 35mm, col.; durata: 115'. Copia 35mm da Cineteca Nazionale.
TRAMA:
Nella Spagna dominata dai mori, un gruppo di cavalieri cristiani intraprende azioni di guerriglia. Alla fine massacro quasi generale. I superstiti delle due parti vivranno in pace.
«Questo film, basato su un episodio di lotta tra gli spagnoli e l'invasore arabo, è importante in diversi modi, di cui il principale è senza dubbio la commistione di generi. Renoir aveva già abbozzato qualche tentativo in questo senso, giocando sia sul legame fluido e organico tra generi opposti, sia sul loro contrasto. Cottafavi invece si interessa alla loro giustapposizione sistematica. "Non è impossibile che il mio film sconcerti. Ha sconcertato soprattutto chi ci ha lavorato. Lo sceneggiatore credeva di scrivere un certo film, il produttore credeva di produrne un altro, gli attori ne interpretavano un terzo, e il risultato ottenuto non ha evidentemente nessun rapporto coi tre precedenti!". Il risultato è il volere del regista che ha tenuto insieme tutti i fili. Cottafavi converrebbe con me nel ricorrere alla terminologia di Hugo per definire questa mescolanza straordinaria (e stridente) del sublime e del grottesco: I cento cavalieri, in fin dei conti, è un film molto più shakespeariano dei film di Welles tratti da Shakespeare. [...] Di una eccezionale ricchezza di linguaggio, I cento cavalieri racchiude troppe scoperte, insieme a una insolita comicità e bellezza difficili da descrivere. Citerei solo due esempi completamente differenti. Il primo perché nessuno ne è a conoscenza: la canzone dei banditi, non tradotta in francese, è un adattamento della Ballata dell'impiccato di François Villon. Il secondo perché tutti l'hanno visto e lo vedranno, è nel momento della battaglia: la degradazione pressoché impercettibile dei colori verso il bianco enero conferisce alla scena l'anonimato brutale di una scena d'attualità. I cento cavalieri conferma la bontà della scommessa di quella frazione della critica francese che, come ha fatto per Losey o Walsh, riserva da più di dieci anni la massima attenzione al lavoro di Vittorio
Cottafavi».
Michel Mourlet, Du côté
de Shakespeare,«Les Nouvelles
Littéraires»,23 gennaio 1969
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