Presentazione XVII edizione

Fuggiamo insieme

di Sergio M. Grmek Germani


Se parlo di film, di sole, di poesie, nessuno mi ascolta.

Se parlo di cose serie, di soldi, tutti mi ascoltano.

Pietro, dall'Ospedale psichiatrico di Gorizia,

in I giardini di Abele (1968) di Sergio Zavoli




Avvolgersi in qualcosa è necessario: perché esorcizzare l'alienazione come cosa altrui, beatamente superabile in un dispiegarsi dell'umano, è forse il dato più caduco delle ideologie (marxiana in primis, in quanto ancora ideologia). Esorcizzare, per esempio, la religione come oppio fa oggi ridere, dacché essa ha saputo trattenere meglio d'altri esigenze profonde. Da amanti del cinema, e devoti di Carl Theodor Dreyer, sappiamo che il cinema raccoglie quel che è essenziale del religioso, il sottrarsi a un divenire come destino di morte, quello che anche il grande cinema di Leo McCarey (ben accolto quest'anno a Locarno, e il prossimo ai Mille occhi proseguendo l'omaggio di qualche anno fa) respinge col suo to be, e di cui l'inventivo titolo italiano Fuggiamo insieme che qui assumiamo (corrispondente al suo Once Upon a Honeymoon) rovescia come nel film le direzioni della Storia. Ma il cinema sa accogliere tutti i gradi dell'essere umano, e non solo umano, piuttosto nella visione libera, seppur segnata dal divino, di una Divina Commedia, opera che ha ossessionato molto cinema, e di cui quest'anno ci giungono nel programma due momenti importanti, il ritorno al festival del cineasta-dantista Marc Scialom e il ricorrere di influssi danteschi (anche dalla Vita Nova) nei film di Eckhart Schmidt. Schmidt, tra i tanti meriti di cui in parte diremo (tra essi permettersi di fare cinema italiano originalissimo senza scomodare né MIBACT né festival italiani - I mil -le occhi, si sa, sono apolidi), ha eminentemente quello di congiungere poesia alta e terrenità dei corpi, la cui ritornante apparizione (che è la flagranza del corpo nell'immagine) non demonizza la provocazione che il corpo contiene, e che può manifestarsi nel sessuale. Un tanto, per ora, anche per ribadire che quando il nostro festival percorre l'hardcore, o anche le gioie del soft, non è per titillare (quello può venire da sé) ma per non negarsi un abbraccio forte che il cinema ha con la vita. Il cinema è stato un grande e libero teologo, oltre che nell'amato e compianto Ermanno Olmi, oltre che nel mai incatenantesi Raffaello Matarazzo di cui il finale teorico di Guai ai vinti scavalca con un carrello la croce, anche nelle commedielaiche di Comencini, o nello stupendo Trappola (parola che ben definisce anche il cinema) di Eugenio Perego con Leda Gys. Ed ecco allora che quest'anno siamo lieti di conoscere meglio (grazie a Cinema ritrovato di Bologna e Giornate del cinema muto di Pordenone: ma I mille occhi non sono ombelicali, come Roberto Rossellini in Illibatezza e in tutto il suo cinema si abbandonano volentieri alla conoscenza) un cineasta grandissimo, John M. Stahl, che digrada anche i momenti religiosi in una immanenza assoluta: oh, il piano di sopra della chiesa di When Tomorrow Comes in cui si eternizza l'amore tra Irene Dunne e Charles Boyer, che meglio non potrebbe prolungare il loro in - contro mancato sulla vetta dell'Empire State Building in Love Affair di McCarey (e poi tra Deborah Kerr e Cary Grant in An Affair to Remember che sarebbe blasfemo chiamare remake, quand'è invece il sempre uguale e il sempre diverso del cinema; a Locarno, appunto, lo vedemmo con la rivelazione del più bel film "mai visto", e qui l'italiano rende perfettamente l'esperienza). Il corpo, si sa, è infinito non meno dell'anima, può estendersi dalla vulnerabilità clinica alla flagranza che l'immagine più che la vita trattiene. Di come la cultura medica potesse essere capace di ridiscutere se stessa, la lezione massima giunge da Franco Basaglia, di cui non ci peritiamo di sottolineare la forza rosselliniana, anche se quasi certamente egli non la frequentò come spettatore. Ma vale molto di più che egli vi abbia converso in parallelo. E poi, guardiamo il bellissimo I giardini di Abele, che varrebbe un Premio Anno uno anche a Sergio Zavoli, non a caso tra i massimi autori di quella televisione italiana che Rossellini, con Cottafavi, Olmi, De Seta, Blasetti, Emmer, Giraldi, Bava, Tognazzi & Vianello e qualcun altro, hanno troppo brevemente reso grande (di Zavoli è sorprendente la verità del pathos, il suo saperlo estendere dalle monache in Clausura al Processo alla tappa grazie a cui Amadeo Bordiga si lasciò per l'unica volta, memorabilmente, intervistare e riprendere per Nascita di una dittatura, ed eminentemente in questo, a tratti rosseniano, lilithiano, "documento" sullo psichiatrico di Gorizia). In I giardini di Abele, accanto a interviste-provocazioni stupende, come quella di Pietro che accogliamo in exergo, o della donna goriziana, la "signora Carla" che si rivolge al "signor Zavoli" dichiarando senza pudori che è diventata folle per una delusione amorosa, interviene senza superiorità gerarchica Basaglia. Orbene, la sequenza con Basaglia è uno dei momenti più alti di cinema: il suo andare su e giù per la stanza, costringendo a tagli continui di montaggio per trattenerlo in campo, è Bazin puro, Rossellini puro. E insieme a questo suo pro blematico entrare in immagine e uscirne, dice le cose più estranee a tatticismi politici e più vere che nel 1968 si potessero immaginare. Ecco perché le incompiute interviste ai politici che egli realizzò l'anno prima della morte, nel 1979 (e che Franca Ongaro Basaglia volle editare affidandone la curatela, oggi ritornante, a Maria Grazia Giannichedda), hanno un valore straordinario, indipendentemente dalla statura politica e intellettuale degli interlocutori. Sono la prova, insieme alle sue coeve Conferenze brasiliane, di un carattere in convergenza col metodo rosselliniano. Oggi la politica, se ancora volesse imparare, vi troverebbe la lezione più alta. Dobbiamo qui dire in tutta, non cerimoniale, modestia, che di occuparsi oggi di Basaglia chi scrive si sente indegno (ma non lo è di meno verso Rossellini, Dreyer, Camerini, Genina, Bianchi). Che cosa feci quand'egli rendeva più vivibile la mia città? Ne fui contemplativo contemporaneo, diversamente da Maria Grazia Giannichedda, Franco Rotelli, Peppe Dell'Acqua, Michele Zanetti, e altrove Antonio Slavich, Mario Tommasini e naturalmente Franca Ongaro Basaglia, che ne resero l'operare possibile e perdurante. Diversamente anche da Sergio Zavoli, Pirkko Peltonen, Silvano Agosti, Franco Giraldi, che lo trattennero in cinema. Al cinema ("e alle arti" per dirla col nostro festival) appartiene, oltre all'opera parallela più lontana di Frederick Wiseman e Leon Hirszman, anche quella scritta murale dell'ex- manicomio, Venga a prendere l'elettroshock da noi, mirabile parodia della commedia lattuadiana tratta da Piero Chiara, momento d'invenzione anonima (o plurale) nell'universo di creazioni artistiche che ne accompagnò la vicenda, da Vittorio Basaglia a Giuliano Scabia al grande triestino, anch'egli mal ricordato nella sua città, che fu Ugo Guarino, che in parallelo alla collaborazione basagliana pubblicò per la Milano Libri due volumi meravigliosi, Cuore (1968, ancora) e La psicoanalisi (1974), e che esordì con una collaborazione a «Il Piccolo» e «La Citta della» che l'amico del nostro festival Guido Botteri aveva con acribia documentato per una pubblicazione rimasta inedita nella città dei no se pol. Orbene, da indegni postumi, abbiamo voluto eleggere "liberamente" (secondo il termine onesto di molti adattamenti cinematografici) il titolo di un fondamentale testo di Franco Basaglia a titolo di questa edizione del festival: Corpo, sguardo e silenzio. Delle tante evocazioni del cinema che esso racchiude una non è di certo solo evocativa ma quintessenziale: il rigettare la clinicocentricità della visione del corpo, e dunque la sua mortalità. I programmi dei Mille occhi si costruiscono nei loro intrecci in corso d'opera, spesso con dolorosi rinvii, e altre volte con la percezione di un dono che non può essere rifiutato. Vi sono alcuni tasselli che quest'anno s'irradiano fortemente dall'omaggio a Basaglia. Certamente il Premio Anno uno a Franco Giraldi, su cui qui si completano alcune osservazioni della motivazione cui rinviamo. Non si tratta solo del luogo-Trieste che ci accomuna: del premio vogliamo sottolineare anche quest'anno i punti di fuga. Nessuna paura di dire che vi arriviamo "per ultimi", dopo un ampio omaggio del Trieste Film Festival fortemente voluto da Annamaria Percavassi, al quale poterono ancora partecipare Tullio Kezich e Callisto Cosulich, e a cui collaborò (con l'unico volume tuttora dedicato al cineasta) Luciano De Giusti, che ancora pochi mesi fa omaggiò Giraldi all'Università di Trieste con Elvio Guagnini. C'è stato inoltre a Gorizia un bel Premio Darko Bratina, che ben vide nel titolo dell'ultimo documentario di Giraldi, Con la furia di un ragazzo, anche una nota autobiografica. C'è stato un omaggio di Lagunamovies a Grado. C'è poi la pluriennale attenzione della Cineteca del Friuli, depositaria di un prezioso fondo giraldiano. E naturalmente l'apprezzamento costante del maggior conoscitore della cultura di questi luoghi, lo scrittore Claudio Magris. Ma non riteniamo la nostra scelta perciò meno importante e convinta. Non a caso essa è stata particolarmente caldeggiata da un nostro pluriennale collaboratore non italiano, Olaf Möller (si sa che la Germania ha un feeling col cinema italiano, come provò l'anno scorso anche l'omaggio al friulano Damiano Damiani). Egli è peraltro tra i più convinti estimatori di Giuseppe De Santis, la cui vicenda artistica e umana s'intrecciò fortemente con quella di Giraldi. E non dimentichiamo che da De Santis si dirama anche Elio Petri. E, in tutti e tre, i personaggi femminili sono fortemente esaltati: tra essi forse Giraldi s'intreccia meglio con alcuni altri sguardi più curiosi verso il femminile, condividendo una seppur diversa (e meglio celata) ti - midezza con Antonio Pietrangeli e Brunello Rondi. L'ascolto sempre raziocinante verso la donna di Giraldi prolunga l'istanza politica di De Santis, il suo indicare il corpo femminile come fondante della politica stessa, senza perdersi nella fasci- nazione fisica, come invece Pietrangeli e Rondi, di cui più ci sentiamo complici mentre Giraldi è un saggio. La presenza al festival di Senta Berger (insieme a quella dello stesso Giraldi per la consegna del premio, e dell'ormai amico del festival Omero Antonutti) dà al nostro omaggio la forza massima cui avrebbe potuto ambire. Un grazie di cuore a Senta, grande attrice e grande donna, entrata a lungo in tanto cinema italiano, compresi due dei più bei film di Giraldi. Essa rende il già magnifico La giacca verde quel film unico che è. Un film che percorrendo il crinale sempre aperto tra vero e falso, può concedersi dei palesi falsi: non solo nella musica di Mendelssohn storpiata da un falso musicante a inno natalizio (e Bacalov genialmente riecheggia quel «Cristo è nato» fino alla coda dopo i titoli di coda: in televisione ve la sfumerebbero di certo, ecco perché è importante proiettare i film in pellicola e in sala), non solo per quella giacca verde che è importante (ancora) vedere in una pellicola dai colori giusti (come Il ragazzo dai capelli verdi di Losey), non solo per quello splendido gioco (condiviso con Mario Soldati) per cui il cattivo musicante diffida del fatto che quello vero si sia scelto a nome quello del dizionario Premoli (momento quasi resnaisiano o markeriano del film), ma soprattutto perché Senta Berger impone la sua bellezza, la sua sensibilità, la sua stessa vera voce su un calco di diva che, come Chopin e Liszt resi intercambiabili da Renzo Montagnani (il quale con Giraldi partecipò a teatro a La coscienza di Zeno), si riferisce in libertà a Isa Miranda (del cui Inferno giallo lei, Eva Sandor, è nella finzione la protagonista) e Marika Rökk. Due attrici che amiamo (e anzi la "miranda Isa" l'adoriamo) e di cui la verità di Senta Berger rende quel bricolage vitale. Così come la sua coppia con Tognazzi in Cuori solitari attraversa genuinamente i tempi della "rivoluzione sessuale" postsessantottesca, rendendo quel film uno dei più belli del periodo, insieme ad altri che quest'anno proiettiamo, volutamente riecheggiando la triade Germi-Bene-Ferreri acutamente intuita da Michel Delahaye sui «Cahiers du cinéma» (dove addirittura Sylvie Pierre elesse L'immorale nella sua topten annuale), rivista che forse ha sottovalutato (a differenza di «Positif») Risi e Comencini e (a differenza di Giuseppe Turroni e «Filmcritica») Lattuada, e beninteso (a differenza di «Présence du cinéma») Cottafavi e Matarazzo, ma certamente ha avuto il merito di accorgersi almeno in parte (con Jean Douchet) di Zurlini, e (con Godard stesso) di Olmi, e (con Fieschi ed altri) di De Seta. Di De Seta accogliamo nel programma, in una copia diversa da quella proiettata in passato, il film meglio sostenuto dalla citata rivista (oltre che da «Filmcritica»), Un uomo a metà, film che nel nostro programma egregiamente distanzia psicoanalisi e psichiatria nel riferimento al junghiano Ernst Bernhard, riferimento pertinente e personale del regista, in nessun momento culturalistico o subordinato (i grandi, come anche Rossellini e Dreyer, sanno di dover sempre imparare ma mai lasciano che il loro cinema sia di derivazione) ma tale da far dispiegare nel film una forza di messinscena unica. Oggi i film d'infarinatura psicoanalitica sono insopportabilmente pretenziosi e noiosi, invece Un uomo a metà è a ogni proiezione più bello: De Seta vi mise in discussione tutto se stesso (e la critica più superficiale non trovò di meglio che rimproverargli il "tradimento dell'impegno sociale" del precedente Banditi a Orgosolo, non capendo che già questo era un film di inconscio sociale), e perciò oggi ci giunge come un'opera più forte delle ideologie coeve. L'interesse del festival verso il cinema italiano si estende a quel territorio parallelo sia al cinema italiano che al cinema americano che è il cinema americano doppiato in italiano (come peraltro era doppiato quasi tutto il cinema italiano). Un "falso" da cui nasce sovente una grande bellezza di voci. Considero le voci di Emilio Cigoli e Lydia Simoneschi tra le esperienze estetiche più affascinanti di tutto il cinema (insieme alle voci di Alberto Sordi e Mauro Zambuto doppianti Laurel & Hardy). Il programma, proveniente dalla preziosa collezione di Simone Starace, eccede però qualsiasi atteggiamento di puro culto. Si sono scelti, infatti, sei film che uniscono la più piccola delle major (l'Universal, quella che sia Stahl che Sirk percorsero) alla più grande delle case minori, la Republic. Di Anthony Mann si proietta uno dei film più lucidi sui regimi totalitari, che nel rapporto con la rivoluzione francese e il suo Terrore prelude a Cottafavi e Eric Rohmer. Di Allan Dwan, Edward Ludwig e John H. Auer si propongono pochi assaggi, ma basteranno a rivelare come il cinema americano veramente bello non sia mai standardizzato, e come esso possa farsi, borgesianamente, ridire da voci italiane. Certo, accettare il doppiaggio è una contraddizione, perché è vero che con esso il fascismo volle cancellare dall'ascolto le lingue straniere (come anche i dialetti), ma è una contraddizione da vivere vitalmente. Una grande capacità di dare al cinema direzioni diverse dagli input della storia si rivela nella rassegna curata da Mila Lazić, seconda parte di quella che l'anno scorso ci offrì film bellissimi di Ivan Martinac, Tomislav Gotovac e altri. Martinac torna quest'anno con altri due capolavori, riferiti stavolta come tutta la rassegna alle più recenti guerre sul territorio jugoslavo. Di questo grande cineasta, che solo l'ignoranza mondialista può considerare periferico, siamo con Mila estimatori convinti sin da quando curammo nel 1998 una rassegna sul cinema croato per Alpe Adria Cinema, e più volte I mille occhi l'hanno omaggiato (ahimé post mortem). Il programma di quest'anno non solo rinnova la collaborazione coi maggiori archivi croati, e con la rappresentanza consolare a Trieste, ma vi aggiunge (anche per il convegno La guerra della follia) il rapporto con istituzioni quali il Fondo per i diritti umani di Belgrado e Sense di Zagabria. Il cineasta che più si è esposto in una lotta per la verità oltre i confini è Lazar Stojanović, di cui l'anno scorso si vide il film represso dal regime titino (in quel tristissimo 1972 jugoslavo, che ormai va visto come non diverso dalle precedenti repressioni cecoslovacca e polacca, e anzi ignorantemente complice del preparantesi crollo di un paese che i cineasti ancora pensavano potesse coniugare socialismo e libertà), mentre quest'anno si vedranno i film sui crimini delle guerre del disfacimento. Il cineasta che nel 1971 pensava che non fosse un tabù riascoltare (in Plastic Jesus) gli inni cetnici e  ustascia, diventa colui che meglio ne contrasta i calchi da parte dei vari Mladić e Karadžić (ed è lui che fa scoprire a Pawlikowski le mitragliate su Sarajevo di Eduard Limonov, fonte del libro di Emmanuel Carrère); c'è solo da interrogarsi chi altri se non lui, purtroppo scomparso, potrebbe oggi girare un film su Slobodan Praljak, il generale croato (e pessimo cineasta) che distrusse il ponte di Mostar e che si è suicidato platealmente al Tribunale dell'Aja. La rassegna si estende acutamente dai film di Godard sul tema a un documentario sui folli della prima guerra mondiale, congiungendosi nel programma sia a Un anno di scuola (perno della trilogia di Giraldi che va da La rosa rossa a La frontiera) sia all'ultimo film di Autant-Lara, inedito in Italia: cineasta dal festival spesso ma mai abbastanza trattato, e infatti ne percorreremo ancora gli intrecci tra film al femminile e film sulle guerre. Corona magnificamente questi montaggi sui decenni e sui secoli il dittico di Cécile Decugis, già ospite dei Mille occhi e recentemente scomparsa, in un anno funesto che ha perso grandi cineasti (Ermanno Olmi, Angela Ricci Lucchi, Idrissa Ouedraogo, Milos Forman, Juraj Herz, Fernando Birri, Nelson Pereira dos Santos, Alain Jessua, Giorgio Trentin, Vittorio Taviani), il grande fedele musicista del no - stro Premio Anno uno, Luis Bacalov, critici di grande intelligenza (Pierre Rissient, André S. Labarthe, Stanley Cavell), attrici meravigliose (Anne Wiazemsky, Danielle Darrieux, Stéphane Audran, Paloma Matta, Dorothy Malone, Anna Maria Ferrero, Alba Arnova, Isabella Biagini, Marina Ripa di Meana, Margot Kidder, Barbara Harris, Christine Keeler, Dolores O'Riordan, Mercedes Grabowski aka August Ames). Con una commozione più ravvicinata salutiamo Kira Muratova, nostro primo Premio Anno uno; Štefka Drolc che raggiunse il festival per un evento magnifico legato al Premio a Škafar; Angela Felice, che collaborò al nostro omaggio a Irazoqui, da quella grande cultrice di Pasolini (e di Siro Angeli) che è stata; e un amico del CEC di Udine, Mauro Dentesano, che vedevamo di rado ma ci rasserenava sentir vivo, lì a due passi da Trieste. Mi scuso in anticipo per le certe, involontarie dimenticanze di un elenco pur limitato a percorsi di passione. Tornando ai Mille occhi, e ben lungi dal volerne esaurire il programma, che si offre a scoperte anche da parte di noi stessi nei momenti di visione durante il festival, ci sembra notevole, per un festival che ha sempre voluto contraddire l'indisponente contrapposizione del cinema del presente a quello di altre epoche, anziché capire come il cinema riviva a ogni proiezione, che quest'anno possiamo proporre un numero particolarmente ampio di recentissimi film italiani o collegati con l'Italia. Li accompagniamo anzi con un incontro con i cineasti che s'intitola Può il cinema italiano ridiventare giovane?, sottotitolo anche di uno dei percorsi che elegge a titolo quello di un film sovietico senza padroni di Gleb Panfilov, Chiedo la parola. Ritroveremo anche due persone vicine, Luis aka Fulvio Baglivi, collaboratore essenziale di varie precedenti edizioni, e Otto Reuschel, cittadino tedesco di origine triestina, che presenta un progetto in cui prosegue la linea di un cinema li - bero dai confini. E incontreremo Stefano Morandini, che da Udine persegue un cinema di matrice antropologica, con un film dedicato al terremoto a Portis e al tema, per noi dreyeriano, di come far rinascere i luoghi. Fabrizio Ferraro sarà per la prima volta ai Mille occhi ma, ne siamo certi, non l'ultima. Il suo film su Walter Benjamin è una delle grandi rivelazioni cinematografiche di quest'anno, che si unisce al suo anteriore film su Simone Weil in un dittico indispensabile, in cui rivivono rigore straub-huilletiano e scoperta del set rosselliniana. E infine, come non stupirsi noi stessi che I mille occhi riescano a presentare in anteprima (in 8 casi internazionale e in altri 3 mondiale) il ciclo italiano, o meglio Ciclo romano, di Eckhart Schmidt? Si tratta dell'intero primo ciclo di 9 film, e di altri 2 ad anticipazione del secondo: girati nell'arco dell'ultimo triennio, in Italia, in coproduzione italiana con la Germania, parlati prevalentemente in italiano e in parte in inglese. Film di paesaggi italiani, di citazioni poetiche (Dante, Pavese) e pittoriche italiane, e di splendide presenze fisiche italiane di attrici inedite. Oltre ad alcune apparizioni in piccoli ruoli, e a parte quante avranno un ruolo nel secondo ciclo, questo primo ciclo di 9 film vede riapparirvi 4 attrici che non esitiamo a considerare sconvolgenti. Un cinema "scritto" ma abbandonantesi alla scoperta del set. E soprattutto un cinema che mette in campo solo donne (di maschile c'è talvolta una voce fuori campo), come un cukoriano Women prolungantesi per oltre venti ore. Loving Valeria è il film in cui si concentrano tutte le presenze, anche minori. Cecilia Saracino in La mia estate più bella, Princess - Voices from Hell e It's Me unisce determinatezza e fragilità (reali oltre che recitate). Marilina Marino esplode, anche per un corpo che un tempo si sarebbe detto da maggiorata, in Love and Death in the Afternoon e ritorna deuteragonista in Amor sacro, Amor profano e nel citato Princess. Valeria Pellegrini, dopo un ruolo secondario in Stella, è protagonista e interprete unica dell'ultimo film, Angel's Flight, dove la camera la segue da tutti i possibili punti di vista, e la fa agire splendidamente nuda e con volto da cerbiatta nel leggere vagando le notizie da tutti i possibili giornali italiani, dove non possono mancare i 5 stelle. In Stella, Stella Reloaded eAmor sacro, Amor profano è protagonista una personalissima, flagran - te Sara Marrone, che nell'ultimo crea con Marilina Marino una coppia di amoreodio al femminile degna di De Palma e Verhoeven. È questo anche l'unico film interamente narrativo, di recitazione in diretta e non con voci fuori campo, e anche su questo terreno Schmidt si conferma sorprendente cineasta italiano. Sì, vogliamo che ci avvolga come un lenzuolo questo Ciclo romano.

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