Quinlan intervista Sergio M.Germani
Riportiamo l'intervista di Alessandro Aniballi al direttore dei Mille Occhi Sergio M. Germani. Ringraziamo Quinlan media partner del festival!
http://quinlan.it/2015/10/02/intervista-a-sergio-m-germani/
INTERVISTA A SERGIO M. GERMANI
"Credo che il modo più giusto per realizzare un festival sia il fatto di essere disponibili ad accogliere delle cose che ti arrivano, che è anche il modo migliore - come ci insegna Rossellini - per fare il cinema". Abbiamo intervistato Sergio M. Germani, direttore del festival I Mille Occhi, la cui 14esima edizione si è chiusa lo scorso 23 settembre a Trieste. E di cui da quest'anno Quinlan è media partner.
Per cominciare a commentare questa 14esima edizione del festival I Mille Occhi, ti chiederei di partire dal titolo che avete scelto quest'anno, Apparizione.
Sergio M. Germani: Il titolo di questa edizione, come un po' tutto quello che entra nella costruzione dei programmi dei Mille Occhi, parte non da un format di qualcosa - che è il criterio ormai con cui si costruiscono tante cose, anche nell'organizzazione delle rassegne - quanto dalle folgorazioni e dalle scoperte che ci arrivano dal cinema che c'è, che si sta facendo e così via. E io credo che, alla base de I Mille Occhi, ci sia la convinzione che bisogna superare le barriere tra cinema del passato e cinema del presente. Ho curato per festival italiani e internazionali delle retrospettive di cui sono molto fiero, ma ritengo che creare una barriera tra il momento retrospettivo e la scoperta del cinema più recente sia diventata una di quelle pigre tendenze che ci sono nella realizzazione delle manifestazioni cinematografiche, cosa che I Mille Occhi ha sentito sin dall'inizio di dover superare. E quindi gran parte delle idee di programmazione del festival ci arrivano da quell'enorme cineteca interna al cinema stesso che è l'insieme dei film realizzati nella storia e che ogni qualvolta si scoprono con la giusta pulsionalità, ci arrivano nel presente con la sensazione di vederli per la prima volta. E questo succede anche nei casi di film che chi realizza il festival ha ampiamente frequentato.
Con quali film di questa edizione hai avuto questa sensazione di riscoperta?
Sergio M. Germani: Beh, per esempio alla proiezione di Frou-Frou di Augusto Genina (1955) ero proprio commosso, perché è veramente un grande ultimo film di un grande cineasta, un film che anche per me era sempre passato in qualche modo inosservato rispetto ad altri suoi titoli. Ma questa sensazione, se vogliamo, arriva continuamente nel rapporto che si ha col cinema qui al festival, che vuole diventare un momento in cui i film appaiono e riappaiono. Quindi l'idea dell'apparizione, per tornare alla tua prima domanda, è legata a due film del passato. Uno è un film minore - perché non è di un grande regista ma è stato realizzato in un momento particolarmente ricco di cose del cinema italiano, nel 1944 - che si intitola per l'appunto Apparizione ed è diretto da Jean de Limur con la collaborazione di Aldo De Benedetti, un film unico, in cui Amedeo Nazzari appare come se stesso dentro la finzione, come star cinematografica. L'altro film cui è legato questo nome di "apparizione" è invece uno dei massimi film della storia del cinema italiano, secondo me, vale a dire Sissignora di Ferdinando Maria Poggioli (1941), che abbiamo presentato lo scorso anno nella nostra anteprima romana e che mi auguro prossimamente proietteremo a Trieste all'interno di un dovuto omaggio a Poggioli, altro cineasta che, per il fatto di essere morto alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ai pochi che se ne sono occupati è sempre apparso come un regista appartenente al passato remoto. Mentre, visti oggi, i suoi film sono davvero delle folgorazioni e delle apparizioni. E quindi, dentro Sissignora, c'è una cosa stupefacente: Maria Denis, l'attrice protagonista, era originaria di un posto in Liguria che nemmeno sapevo che esistesse e che si chiama proprio Apparizione. E questa scoperta è uno di quei doni che arrivano in maniera inaspettata e che bisogna saper accogliere. Perciò, indipendentemente dal fatto che i film citati fossero in programma o meno, ho pensato che Apparizione fosse il titolo giusto per questa edizione.
Un'altra cosa che si fa subito apprezzare del festival, oltre alla scelta di un titolo così azzeccato ed evocativo, è l'immagine, bellissima, che avete scelto [vedere la foto in fondo all'articolo, n.d.r].
Sergio M. Germani: Sì, l'icona è una cosa a cui tengo molto. E non potrei mai usare, come succede a Cannes o Venezia, delle immagini di Marilyn Monroe o di Claudia Cardinale, pur amandole molto. Credo che invece appartenga al festival il fatto di scoprire delle presenze meteoriche che, nel momento in cui sono messe al centro dello sguardo, si rivelano centrali. E allora quest'anno si è scelta Daliah Lavi dal film Il demonio di Brunello Rondi, che si collega alla realizzazione della rassegna Titanus dell'anno scorso a Locarno che ho curato insieme a Roberto Turigliatto, ma anche al fatto che Brunello Rondi è un regista che tuttora va riscoperto per tanti suoi film. In generale, il festival nel costruirsi non rinuncia mai alla continua improvvisazione e disponibilità a ricevere dei doni dal caso, che è il modo migliore non solo per farlo il cinema, come ci insegna Rossellini - il fatto di essere disponibili ad accogliere delle cose che ti arrivano - ma credo che sia anche il modo più giusto per realizzare un festival. Questo ovviamente pur partendo da convinzioni forti riguardo a certi autori e riguardo a certi film. Perché nulla viene inserito in programma solo perché quel film c'è da qualche parte o perché qualcuno l'ha restaurato...
Sì, che è ormai una costante che caratterizza la maggior parte dei festival, a partire dalle sezioni di Venezia Classici e Cannes Classics...
Sergio M. Germani: Già, ed è un'altra cosa che mi sembra uno dei limiti quasi parodici di certe rassegne cinematografiche, cioè il fatto di partire dal principio che c'è un film restaurato da qualche parte o che si pensa che lo si debba restaurare solo perché c'è questa tendenza alla digitalizzazione. Mentre nel nostro festival accogliamo copie d'epoca anche molto rovinate, che però sono la traccia fisica più giusta e diretta dell'esistenza dei film, di attori che vi sono apparsi, di registi che li hanno fatti.
Un aspetto che salta subito all'occhio nella programmazione è quella di aver messo in programma film apertamente ideologici, come ad esempio Camicia Nera di Giovacchino Forzano del 1933, realizzato all'epoca per celebrare il decennio del fascismo e che appare oggi impressionante per l'inesorabilità con cui ricostruisce le premesse che portarono alla Marcia su Roma.
Sergio M. Germani: Devo dire che è dalla prima volta che l'ho visto che ho avuto la sensazione che Camicia nera non fosse uno stupido film fascista, ma un film molto importante, perché attraverso il suo fanatismo riesce a far venire fuori cose che altri titoli mediamente propagandistici non riuscivano a far emergere. E che sia di fatto tra i più importanti film sulla Prima Guerra Mondiale non ho ormai più dubbi. Quest'anno, d'altronde, abbiamo proseguito il nostro percorso nei film che fanno riferimento alla Grande Guerra con anche un omaggio a Ermanno Olmi, il che ci ha permesso di proiettare, tra gli altri, I recuperanti e Ritorno al paese. E le celebrazioni per il centenario della Grande Guerra le abbiamo cominciate a I Mille Occhi diversi anni fa, perché l'importante - rispetto ad altri festival, ad altre rassegne - non è decidere se fare o non fare una cosa che fanno tutti, l'importante è decidere di farla in modo diverso, riscoprendo ad esempio dei titoli dimenticati. E tra i film scelti, per l'appunto Camicia nera ha anche questo elemento un po' allucinato per cui il 1914, nel finale, viene messo in relazione - in una immaginaria distopia - con un 1944 ancora di là da venire. Si tratta, secondo me, di uno dei grandi film distopici della storia, perché nel momento in cui si passa ad immaginare un futuro radioso, industrializzato, questo si trasforma involontariamente anche in un incubo.
Già, mi ha ricordato certi film cinesi realizzati proprio a cavallo del 1949, in coincidenza della presa del potere da parte di Mao.
Sergio M. Germani: Sì, hai ragione. E molto cinema che ha delle committenze di segno ideologico arriva in realtà a metterle in dubbio secondo me, anche quando è particolarmente controllato. Succede per esempio anche nel cinema nazista. Ma penso anche a un altro film proiettato qui al festival, L'invasore di Nino Giannini, girato nel '43 e finito nel '49 con la supervisione di Roberto Rossellini, anche se non si è mai capito se vi abbia solo messo il nome per ricevere un compenso o se abbia effettivamente dato qualche suggerimento. E si tratta di un film molto sorprendente, in cui ad un certo punto irrompe un segmento da un altro film, Kolberg di Veit Harlan (1945), perché evidentemente servivano delle grandiose scene di battaglia che Giannini non aveva potuto girare. Siamo qui in pura operazione Guy Debord, un atto situazionista, di fronte tra l'altro a una guerra veramente totale. Non si capisce infatti chi è l'invasore, chi è il nemico, chi si comporta in modo più becero, se i piemontesi che sarebbero gli italiani - visto che non c'è mai la parola italiano nel film - o se gli altri. Del resto, questa è una cosa a cui I Mille Occhi tiene molto, perché credo che un festival debba proiettare film che arrivano da qualsiasi origine e marchio. Per essere ancora più chiaro, dico che non avrei dubbi a proiettare Jud Süß (Süss l'ebreo, 1940), sempre di Veit Harlan. Andrebbe proiettato nel momento giusto, ovviamente, perché non mi interessano le pure provocazioni che creano solo reazioni di fastidio, mi interessa invece molto dare la possibilità a film marchiati in un certo modo di far arrivare quella flagranza del rapporto del cinema con la realtà che agisce sempre. E perciò della serata di apertura, in cui avevamo il film Il Duce a Trieste, io sono molto contento, perché mi ha dato la possibilità di mettere insieme due discorsi che mai si sono incontrati in un luogo, quello di Mussolini e quello opposto dell'anarchico triestino Umberto Tommasini, la cui video-intervista, Vivere da anarchici. Umberto Tommasini: intervista sulla rivoluzione spagnola, era l'altra proiezione della serata di apertura. E, tra l'altro, entrambi i film si devono a Paolo Gobetti, figlio dell'antifascista Piero, e all'Archivio Nazionale Cinematografico della Resistenza, di cui lo stesso Paolo Gobetti è stato presidente. Il film sul Duce è stato ritrovato infatti dall'Archivio e tra l'altro la copia presentata non è ancora completa, ma già così è impressionante vedere il comizio di Mussolini a tutta Trieste, a una miriade di presenze che non hanno individualità. Mentre, in opposizione, c'è il film su Tommasini, realizzato proprio da Paolo Gobetti nel 1976: un'intervista a due, in cui ci sono due persone che si parlano con il microfono in mezzo, cosa secondo me bellissima perché Paolo Gobetti tiene il microfono in mano per un'ora e venti facendo un minimo di domande quando serve, ascoltando, facendo parlare Tommasini. Un piano-sequenza non montato con una interruzione dovuta solo al cambio del nastro - visto che era girato in video - e per me è puro cinema, perché è un cinema che nasce da una presenza forte, come quella di questo anarchico. E, allora, mettere insieme due cose che provengono da uno stesso archivio, l'una con il discorso totalitario del Duce, l'altra con il discorso anarchico fatto contro tutti i totalitarismi - perché Tommasini parla anche di cosa hanno fatto gli stalinisti in Spagna - mi sembrava uno di quei doni che, se il festival non fosse stato capace di raccogliere e includere nel programma, sarebbe stato il segno di una mancanza di ricettività verso quello che ci offre il cinema.
Il programma del festival è contrassegnato da percorsi in cui sono compresi - e quasi raggruppati - diversi titoli e uno dei percorsi più importanti di questa 14esima edizione è stato quello che avete chiamato Expanded Dreyer in progress.
Sergio M. Germani: Sì, e a proposito di questo vorrei aggiungere che il programma ogni anno si compone della molteplicità di idee che arrivano dai vari collaboratori. Sono molto contento del fatto che ho sempre meno il bisogno di costruire in testa delle mie cose, perché già mi arrivano molte proposte e quindi curo molto di più le parti quasi di collegamento, di esplicitazione del programma, come è questa rassegna in progress dell'Expanded Dreyer. Infatti, Dreyer, è per eccellenza un cineasta di cui tutte le storie del cinema si occupano, ma in genere c'è questo pregiudizio che, essendo stato un cineasta molto rigoroso che ha fatto pochi film, in realtà la sua filmografia è quella e il resto del cinema non riceve nulla dalla sua presenza, o quasi; ad eccezione di certi autori che vi si sono direttamente riferiti, a partire da Pasolini. E invece quell'esigenza che sta alla base del discorso di Dreyer è presente in tante altre esperienze cinematografiche ed è il rapporto tra presenze vive e macchina mortale che spesso connota, ancora prima del cinema, la realtà sociale. Per me Ordet è un luogo centrale nella storia del cinema, all'interno del quale tutti i discorsi religiosi che vi si incontrano svaniscono di fronte al momento del miracolo del ritorno in vita della donna. È uno di quei momenti sovrani del cinema, in cui credo molto. E questo elemento va scoperto secondo me in tanti altri film, in tanti altri cineasti, anche azzardando. Infatti, io per primo non so se Oreste Palella sia un autore che va tutto riscoperto, però quando tre anni fa abbiamo proiettato la copia appena ritrovata dalla Cineteca del Friuli di Caterina da Siena (1947), ne siamo rimasti folgorati. È un film che ha con sé, non solo una componente religiosa e naïf, già di per sé molto bella, ma che vi ragiona anche. Infatti, il momento della morte di Caterina da Siena, quando ha il delirio e vede il sangue dappertutto, quel momento di passaggio dalla vita alla morte viene esplicitato sulla ripetizione di un ‘san' che sta a significare sia il sangue che la santità...
Mostrando cinema ideologico e non, cinema del passato e cinema del presente, film d'autore e non, il festival sembra mirare con successo a raggiungere proprio quell'obiettivo insito nel suo nome, Mille Occhi. Eppure l'impressione è che vi sia un'identità fortissima, fatta anche di sorprendenti comunanze tra film apparentemente diversissimi.
Sergio M. Germani: Intanto ci sono due riferimenti per noi, che pur non essendo dei canoni, continuano ad essere rivelatori e folgoranti, si tratta per l'appunto di Rossellini e di Dreyer. Loro sono i due cineasti nei quali si concentra il massimo del rapporto tra ciò che il cinema può essere in potenza e quello che riesce effettivamente ad essere. Perciò anche l'impossibilità di Dreyer di realizzare il suo ultimo film, Jesus, e tanti altri progetti che non è riuscito a fare, è una cosa che ovviamente ci dispiace, ma è anche un segnale della sua radicalità. Nel caso di Rossellini, invece, quella che talvolta appare a qualcuno quasi cialtroneria, il fatto di dire una cosa e poi magari un'altra un po' contraria, è invece il segno della sua ricettività rispetto all'irrompere continuo della vita. Detto questo, un'altra barriera che il festival vuole assolutamente abbattere è quella con il cinema di genere. Sembra che oggi occuparsi del cinema di genere o di serie B debba per forza portare ad atteggiamenti di culto o di livellamento, per cui più una cosa è brutta, più è bella. Questi discorsi potevano anche andar bene finché funzionavano come provocazioni contro una critica che ignorava il cinema di genere, ma il fatto che poi diventino essi stessi un segno di omologazione mi sembra un limite fortissimo. E allora il cinema di genere che entra nei Mille Occhi vi entra sempre nella convinzione che si tratti di film che contengono un rapporto importante con il cinema. Quest'anno, ad esempio, abbiamo proiettato Una donna per 7 bastardi (1974) di Roberto Montero, un regista a proposito del quale non ho mai avuto la sensazione che fosse particolarmente importante. Però il film è arrivato in programma per una rete di casualità, perché c'è a Trieste qualcuno, Giancarlo Stampalia, che sta scrivendo un libro su un'icona dei peplum, Richard Harrison, che è tra i protagonisti del film. Anzi, in questo caso, Harrison partecipò addirittura alla stesura del soggetto, un soggetto che poi venne modificato dal produttore favorendo come protagonista un altro attore, Dagmar Lassander, rendendo il film secondo me ancora più bello, con questo monco che riesce a sconfiggere tutti. Da un certo punto di vista sembra quasi un film giapponese, e magari c'è davvero qualche titolo giapponese cui il soggetto si è ispirato. E, anche con l'aggiunta dell'elemento del soft erotico, il film mantiene comunque una sua coerenza. Giustamente Olaf Möller, che è uno dei nostri collaboratori che ha più sintonia con il festival, da anni dice che quel film è pura avanguardia... Ma, rispetto all'identità del festival, vorrei anche aggiungere che non credo nei discorsi limitativi, quelli per cui si teme di trasgredire a una certa costruzione teorica, alla scelta predeterminata di certi autori. Certo, la stagione dei Cahiers du Cinéma ha rappresentato un momento di rivelazione di tante cose che del cinema non si sapevano. E credo che quel che è avvenuto nella storia della critica e in quella del pensiero del cinema grazie a Bazin, Rohmer, Rivette, sia stato un passaggio fondamentale ed è tuttora un punto di riferimento. Devo aggiungere però che, una volta che identifichi questa rivelazione, a me finiscono per interessare molto di più le deviazioni. Per cui dentro ai Cahiers mi piacciono le scelte fatte all'epoca da Douchet e da Domarchi di dire che Cukor e Minnelli sono dei grandi. E, rispetto a questo, su quella linea anarchica che abbiamo detto, secondo me il festival non deve mai avere la preoccupazione di seguire delle scuole. La posizione, il pensiero su un autore o su un film, è una cosa che cambia continuamente. Per tornare ad esempio ad Augusto Genina, sono molto contento del libro che anni fa ho scritto su di lui. Ma devo anche dire che è un libro che trovo molto auto-limitante nel dover in certi punti quasi dimostrare quanto Genina sia stato importante. E poi capita di rivedere Frou-Frou e di rimanerne folgorati...
Vi sono alcuni accostamenti di programmazione che ho trovato perfetti, penso in particolare allo spazio dedicato a Ciro Giorgini, inserito nel contesto di una riflessione sull'esperienza della visione in sala. È stato bello infatti veder proiettare Appunti per un film sui cinema romani, progetto di Giorgini che stiamo cercando di portare avanti insieme a Valerio D'Angelo, Martina Ghezzi e Daria Pomponio [leggere l'articolo del Piccolo per saperne di più, n.d.r.], insieme a Buio in sala di Dino Risi (1948) e Coda di Luis (2014), film fatto solo delle code delle pellicole, quel lacerto che di solito andava scartato e che ora appare prezioso per la progressiva scomparsa del 35mm. Ma, su un piano completamente diverso, anche il film di Risi è un film sul cinema, un geniale cortometraggio sull'esperienza spettatoriale.
Sergio M. Germani: Sì, questo programma tra l'altro l'abbiamo chiamato La promessa di Ciro perché quando Ciro Giorgini venne un paio d'anni fa qui a Trieste ci promise che ci avrebbe portato degli estratti del suo progetto sulle sale cinematografiche, ma poi purtroppo non è riuscito a finirlo. E il nome viene anche da un raro film per la TV di Valerio Zurlini che venne ritrovato da Ciro negli archivi della Rai, intitolato proprio La promessa (1970), e che proiettammo nel 2013. Ci sono alcuni tasselli della programmazione di cui sono particolarmente contento, perché hanno un rapporto tra l'intuizione, fatta senza rivedere i film ma solo pensandoli, e il loro apparire in sala che finisce per coincidere con certe cose che si erano pensate, ma che ovviamente ne rilancia altre. Un altro programma di cui sono rimasto molto contento è quello dei due Olmi - I recuperanti e Ritorno al paese - seguito da L'alpino della Settima (1969) di Giuseppe Taffarel, che io non avevo nemmeno visto. Ma, dato che il festival ha una rete di amicizie e di contributi che si rivelano quelli giusti, nel momento in cui mi arriva un suggerimento non c'è neanche bisogno di andare a controllare. Non è che mi preoccupo di vedere un film non appena viene inserito nel programma del festival, anche perché come avrai notato io ci tengo molto ad essere sempre in sala, assentandomi solo quando è indispensabile. E si tratta di un modo per vedere quanto di quello che si è pensato del programma sia stato realizzato e quanto invece se ne discosta. Quindi, a I Mille Occhi, sempre di più le cose nascono e crescono così, a cominciare dalle presenze come la vostra e di tante persone che ci seguono. E allora il limite fortissimo di questo festival è quello di riuscire a fare solo una piccolissima parte delle cose che potrebbe fare, con infiniti disagi. Io molto spesso mi sento imbarazzato verso gli ospiti dal fatto che si vorrebbe accogliere come un dono la loro attenzione verso I Mille Occhi, mentre siamo sempre costretti a trattare sulle piccole cose, l'ospitalità, il viaggio, eccetera. È una cosa che mi fa sentire veramente male, perché basterebbe poco, dato che questo festival non ha mai mirato ad arrivare a budget veneziani o torinesi. Basterebbe poco, un minimo di sensibilità, che invece - da parte delle istituzioni - è molto limitata. Poi nessuno ci ha mai detto che facciamo delle schifezze, però - a cominciare da Trieste ma passando anche per la insufficiente conoscenza de I Mille Occhi che c'è altrove - c'è spesso la tendenza a pensare: vabbé, c'è e fa certe cose che vanno anche bene, ma se non ci fosse non cambierebbe niente. Ti dico che non è che vorrei continuare a fare questo festival a vita, potrei anche mettermi a fare altre cose che mi interessano molto, sempre nel campo del cinema, come scrivere, fare ricerche d'archivio, eccetera. Ma, sempre di più, di anno in anno, ho la sensazione che quello che si mette in moto con questo festival esiga di essere almeno in parte realizzato. E quindi, anche alla fine di questa edizione, si tratta come sempre di ripartire da zero. Non abbiamo praticamente nessuna certezza di poterne fare un'altra, dovremo perdere un mucchio di tempo per capire quanti e quali finanziamenti potremmo avere. Per fortuna comunque c'è una presenza sempre più considerevole di collaboratori, anche giovani, che credono nel festival.
C'è un'avvertenza, già all'inizio del programma, che colpisce e che inizia così: "Nella transizione delle sale dalla pellicola al digitale, I Mille Occhi ritengono indispensabile che festival e cineteche proiettino i film realizzati in pellicola nei formati originali, almeno finché i musei non esporranno copie digitali dei dipinti".
Sergio M. Germani: Sì, grosso modo è la stessa avvertenza che mettemmo anche nel 2014 e che abbiamo aggiornato quest'anno per la presenza del proiettore DCP, che abbiamo per la prima volta qui nella sala in cui si fa il festival, il Teatro Miela. Si tratta di una acquisizione tecnologica che forse poteva anche non essere indispensabile; e invece lo è diventata già quest'anno, grazie alla presenza del secondo film di Vítor Gonçalves, A Vida Invisível (2013). Ed è questo, secondo me, uno di quei film che danno una ragion d'essere al digitale, perché la perdita di presenza dei corpi reali nella morte evocata di António Reis si collega splendidamente all'uso di materiali che invece arrivano dal Super8. Tra l'altro, sono molto convinto della scelta che abbiamo fatto quest'anno di assegnare il premio Anno Uno proprio a Vítor Gonçalves. Non c'è una vera regola nell'assegnare questo premio, tranne la volontà di riferimento che c'è nel nome al film che è stato il più maltrattato di Roberto Rossellini e che, a distanza di tempo, secondo me vince su tutte le stupidaggini che sono state dette allora. Un film che venne attaccato perché asservito alla Democrazia Cristiana, mentre è vero esattamente il contrario.
E dove poi c'è il magnifico cineasta greco Stavros Tornes che interpreta Ferruccio Parri...
Sergio M. Germani: Sì, ed è una delle cose geniali, visto che nel film Parri diventa un anarchico incazzato, e farlo fare a Tornes è una scelta eccezionale. Poi non è neanche detto che Rossellini sapesse molto di Tornes, ma questa è una prova ulteriore della sua genialità. Il riferimento nel premio quindi è a questo destino, particolarmente emblematico anche all'interno dell'opera di Rossellini, che sappiamo che già per i film con la Bergman ha sempre dovuto superare degli esami per dimostrare di essere coerente con quanto aveva fatto prima, cosa assolutamente stupida perché la sua opera è andata sempre in direzioni impreviste, inventive. Quindi, partire da un riferimento al film Anno Uno per il premio, che è anche il nome dell'associazione che organizza il festival, è l'unico riferimento che si voglia avere nell'assegnarlo, cioè identificare ogni anno quegli autori che siano più o meno noti e che però hanno realizzato dei film che sono caduti nell'equivoco, nel vuoto. Il modo ad esempio in cui è stato trattato Gonçalves nel 2013 alla Festa di Roma, quando Marco Müller ebbe il merito di selezionarlo, è stato veramente sbrigativo, se non insultante, con commenti che sono passati dall'accusa di film noioso a film mortuario. E, curiosamente, per tornare al discorso sulla pellicola e sul digitale, né A Vida Invisível né il primo film di Gonçalves, Uma Rapariga No Verão (1986), sono in 35mm, tanto per far capire che crediamo nella sregolatezza.
Però rispettate comunque il formato originario del film.
Sergio M. Germani: Sì, perché crediamo nella precisione e nell'evitare dogmi a partire da questa precisione. Quindi il primo film di Gonçalves non solo casualmente è in 16mm, ma è la quintessenza del 16 e di questo suo carattere al contempo fragile, ma particolarmente sensuale nel colore. E quindi siamo contenti di poterlo proiettare nell'unica copia in 16 che c'è alla Cinemateca Portuguesa. Queste sono le perfomance che mi piace realizzare. Per tornare, invece, all'avvertenza che c'è nel nostro programma, ti dico che probabilmente la cambieremo per quel che riguarda i film muti. Ci eravamo infatti adeguati a proiettare i muti in digitale, laddove la velocità di proiezione era al di sotto dei 18 fotogrammi al secondo. Questo perché nella nostra sala non abbiamo il proiettore in 35mm con il variatore di velocità. E, in proposito, mi ero dato la regola che, quando i film muti hanno una velocità che va da venti fotogrammi in su, si possono anche proiettare a 24, ma al di sotto avevo pensato che sarebbe stato meglio avere la trascrizione in video alla velocità giusta. Uno di questi film digitalizzati proiettati quest'anno, però, mi ha fatto cambiare idea. Si tratta di Umanità di Elvira Giallanella (1919), di cui tra l'altro non è stato possibile mostrare il segmento finale per problemi tecnici. Ma, al di là di questo incidente, avevo comunque l'impressione di una proiezione non riuscita, da rifare. E che mi è servita da lezione, perché ho avuto la netta sensazione che mandare a 24 fotogrammi un film che andrebbe proiettato a 16 o 18 è una cosa meno grave che mostrarlo in video alla velocità giusta. Perciò, per il futuro, sono portato ad applicare la regola della pellicola anche a film che vanno più lenti. Certo, ci saranno delle accelerazioni, ma non abbiamo la smania di far vedere i film muti con l'accompagnamento musicale, si possono far vedere anche completamente muti. Questo perché la perdita di fisicità che hai col passaggio in video è atroce, un film del 1919 era diventato un video che avrebbe potuto essere stato scambiato benissimo per un film realizzato nel 2015 come simulazione del muto.
Sì, è il difetto che spesso si ha con il digitale, questo effetto di "presentificazione", per cui tutto sembra essere stato appena fatto.
Sergio M. Germani: Già, mentre noi cerchiamo tutt'altra presentificazione, che è l'irruzione dal passato con tutta la flagranza fisica del cinema.
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