Daddy
Sabato 19 settembre 2015, intorno alle ore 22.20, Teatro Miela
Daddy: A Bedtime Story
di Peter Whitehead Niki de Saint Phalle, 1973
««Oscillando fortemente tra l'espressionismo tedesco (a volte seriamente usato come riferimento e parodiato - pastiche di Lili Marlene) e l'underground newyorchese, il film porta una parola, e per la prima volta senza dubbio una parola totalmente femminile, d'una violenza inaudita. [...] Affrancandosi da tutte le convenzioni morali, interamente basato sul cerimoniale, il simulacro e l'assenza di pudore [...], Daddy assomiglia visivamente a una festa pagana. Un olocausto. Raffinato, d'una ironia estrema aggressiva e virulenta, interamente fondata sulla rivendicazione di una società di piacere (cfr. la scena sbalorditiva dove la madre, maledicendo il padre, spiega come gli uomini hanno utilizzato il piacere a loro profitto). L'immaginario deflagra, con i suoi affreschi grotteschi, osceni, derisori (sequenza finale, con il padre crocifisso e fuso nella materia, dove non restano che i rottami di un modellino di Jumbo Jet) e scioccanti (la lezione di orgasmo data da Niki de Saint Phalle all'adolescente chiamata a eccitare Daddy), Niki de Saint Phalle stessa, mascherata da amazzone stile George Sand (in travestimento lesbo) o con la parrucca biondo cenere diventa simbolo della bisessualità - vedere anche come una volta morto il padre resusciti come una sorta di angelo effeminato. Lo scandalo, diceva Pasolini nell'Edipo Re, è il solo modo di scalfire la crosta della realtà.
Daddy, in questo senso, è un film scandaloso e scioccante nel miglior senso del termine. Una mirabile esibizione d'Eros sul campo (di tiro: Niki fucila suo padre) della psicanalisi».
Michael Grisolia, «Cinéma», n. 185, marzo 1974
«Niki de Saint Phalle ha scritto un romanzo, Mon secret, dove racconta come prima di avere girato insieme a me Daddy non avesse nessuna consapevolezza degli abusi subiti dal padre quando era bambina. Facendo il film, che per lei è stato una forma di autoanalisi, i ricordi le sono tornati, ha acquisito una consapevolezza di quanto aveva vissuto per colpa del padre. [...] Il mio rapporto con Niki durante la lavorazione del film è stato molto complicato. L'attore che interpreta il padre, Rainer Diez, era stato l'amante di Niki prima di me. Clarice Mary, che interpreta la madre, è stata la prima amante donna di Niki. Clarice è la figura a cui Niki si ispira nella sua rappresentazione artistica delle Madri, le Nana che l'hanno resa famosa. La bimba che interpretava Niki da piccolina era la figlia di Clarice, abitava insieme a lei e a Rainer mentre io vivevo con Niki. [...] All'origine di Daddy c'era la mia relazione con Niki de Saint Phalle, il film si basa su una complicità erotica e sessuale... Eppure nel processo di realizzazione tutto diventa un artificio. [...] Per certi aspetti Daddy prosegue nella mia ossessione di usare la macchina da presa come un microscopio sotto al quale, in questo caso, passa la personalità di Niki, la sua arte e il mio rapporto con lei. [...] Conoscendo meglio l'arte di Niki avevo capito che [bisognava rendere] in pieno la forza del suo universo mentale, che era sì infantile e apparentemente naïf, ma nascondeva anche dei segreti, un lato oscuro che probabilmente si celava nella sua infanzia. Ho cominciato a registrare le azioni di Niki, le conversazioni sul suo passato, certe sue intuizioni, tipo l'idea della bara che poi utilizziamo all'inizio di Daddy, o la figura della madre come strega... Andando avanti in questa direzione anche Niki aveva superato il confine delle sue rimozioni cominciando a capire che la bambina della storia era lei stessa. Ci scambiavamo le nostre fantasie inoltrandoci su territori sempre più strani. Tutto era intrecciato, le pro iezioni, i desideri, posso dire che anche le fantasie sessuali femminili mi appartenevano. Stavamo vivendo una specie di autoanalisi reciproca».
Peter Whitehead in Laura Buffoni e Cristina Piccino (a cura di), Peter Whitehead: Cinema, musica, rivoluzione, Derive e Approdi, Roma, 2008.
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