Introduzione

L’ombra e la grazia
(To Be, or: Whatever Happened to Esme Johns?)

di Sergio Grmek Germani

Dedicato a Claude Chabrol
Trieste, 12 settembre 2010


[Doris Dowling, con la sua voce:]
Un film deve durare un’ora e mezza. La vita è più lunga.
[Marcello Mastroianni, con la voce di Giulio Panicali:]
Sì, ma la vita non ha ritmo.
(da Cuori sul mare, 1950, di Giorgio Bianchi,
cosceneggiato da Oreste Biancoli e Siro Angeli)


Naturalmente si può dubitare che la vita sia più lunga di un film. Ma la citazione è un dovuto omaggio alle accensioni disseminate in un cinema italiano “minore”, che I mille occhi non cesseranno di amare quanto amano i grandi fari del cinema.
Non è, come si può vedere, questione di “cinefilia”, di egoistiche autodifese di piaceri di nicchia.
Del cinema amiamo prima di tutto il fatto che sia un rivelatore del reale. Nell’intervista a Eric Rohmer (di Jackie Raynal) inclusa in programma si può ascoltarlo dire della rivoluzione copernicana che compì André Bazin, rispetto ai precedenti discorsi sul cinema, abbracciando del cinema prima di tutto il rapporto con la realtà.
Rossellini e Dreyer rendono visibile al massimo questo destino del cinema. E Leo McCarey, di cui l’anno scorso cogliemmo la grandezza (a cui ritorneremo sperabilmente il prossimo anno), ci ha folgorato con quel capolavoro del pensiero e dell’arte, The Bells of St. Mary’s, in cui si dichiara con la massima semplicità ­l’oggetto del cinema: To Be. Laddove in tutta evidenza la dialettica shakespeariana (e lubitschiana) è volutamente troncata in un nietzschiano dire sì alla vita, in un parmenidiano tornare all’essere.
Poiché ci riferiamo qui (senza nessuna autoreferenzialità, procedimento che ci è estraneo) ai titoli prescelti per questa introduzione, esplicitiamo subito anche un ringraziamento a Simone Weil e Franco Fortini, suo traduttore italiano che nel 1951 pubblicò presso Comunità L’ombra e la grazia, che s’intreccia con la coeva edizione postuma francese di La condition ouvrière, altra opera weiliana che converse con Europa ’51 di Rossellini. La geniale forzatura fortiniana, che spinge la pesanteur originale verso l’ombra, può aiutarci a seguire certi percorsi ombrosi del programma: e non ci turba l’abîme tra i nomi sin qui pronunciati e il Dario Niccodemi che ispirò Bianchi. Così come in Francia si seppe vedere la grandezza della teatralità prestata al cinema di Guitry, Pagnol, Mirande, o anche gli intrecci di un Bernstein ricreati da Resnais, in Italia va ancora scoperta la vitalità di un cinema che ricreò gli intrecci di Niccodemi o De Benedetti, per non dire del pathos di Ugo Betti che segnò Genina e Cottafavi, il cui I nostri sogni (che conclude nel modo più giusto il programma del festival) fu messo in scena anche da un altro “nostro” autore, Alexis Damianos che lo diresse a teatro.
Non per ostentato citazionismo o per scheletrica interdisciplinarietà, ma per un bisogno di riconoscere come il cinema ha rivelato, con la realtà, anche il rappor­to con essa delle precedenti arti, e del pensiero e della cultura, vogliamo qui ­evidenziare un altro ringraziamento a qualcuno che c’ispira. A I mille occhi si ­rimprovera talvolta (anche da molto vicino) l’eccessiva profusione dell’offerta, con la sottintesa domanda: ma c’è un pubblico per questo? Orbene, di fronte a questi timori senza prospettiva, ricordiamo che un grande pensatore e storico del pensiero, Giorgio Colli, si profuse negli anni ’60 (epoca di cui pur si riscoprono boom vari, anche editoriali) in una splendida collana di Enciclopedia degli autori classici, oggi ricercata (e chi scrive è lieto di possederla tutta) ma che allora passò ai remainders prima di essere sospesa. Poi la sua opera poté proseguire, fino alla prematura morte, sotto il marchio Adelphi, che, se oggi è il vero mainstream dell’editoria italiana, nacque da amori tutt’altro che generalmente condivisi di Roberto Bazlen e Luciano Foà.
Non intendiamo misurarci con questi grandi. Diciamo soltanto che ciò dimostra come, in ogni attività culturale, chi rapporta le ragioni di ciò che fa con la sola eco di un’accoglienza prolungantesi dal passato si muove in una direzione ­davvero inutile e superflua. Ha senso invece spendersi per incontrare lettori e spettatori ancora nascosti. Le istituzioni pubbliche e private sono intelligenti se lo capiscono. Se no sono molto più residuali di quanto non ritengano sia il fare cultura.
Tantopiù in momenti di crisi, che certo esigono duttile realismo (il programma di I mille occhi di quest’anno ne è, crediamo, l’evidente, dovuta espressione) ma prima di tutto fermezza di convinzioni. Che ci ha portati tra l’altro a realizzare una rassegna, in cui caliamo film amatissimi, sottotitolata Cinema ed economia: due finzioni allo specchio e beffardamente intitolata Moody’s Movie. Sì, il cinema ha saputo dare rating economici più attendibili della qui distornata agenzia globale. Solo chi coglie poco la vitalità presente di certo cinema “del passato” può sorprendersi di come nella nostra scelta ci si sia concentrati in gran parte sui film italiani dagli anni ’30 agli anni ’60: con tutte le fratture storiche di questo quarantennio, che non intendiamo attenuare revisionisticamente, il cinema italiano ha mantenuto una vitalità di organismo, che gli permetteva di muoversi liberamente rispetto ai condizionamenti politici o religiosi o generalmente ideologici. Vedere per credere un film come Giorno di nozze di Matarazzo, per capire come un film potesse andare oltre gli economicismi. Perché, così come “nella vita” l’economia dev’essere diretta dalla politica, “nel cinema” può essere diretta dall’invenzione del cinema stesso. I nostri sogni di Cottafavi va ancora oltre: il sogno d’amore di De Sica vi diventa una messa tra parentesi della storia, fascismo incluso. E Nina, il film italiano finale di Minnelli, costruisce un sogno che forza la sua povertà ­produttiva: il grande Vincente, che già s’immerse genialmente nel mainstream produttivo hollywoodiano della M-G-M, diventa ancora più grande nei suoi film europei (come The Four Horsemen of the Apocalypse) o appunto italiani (come Two Weeks in Another Town): e il finale A Matter of Time (titolo di geniale trasparenza), edito in Italia come Nina, è uno dei grandi film eroici della ­storia del cinema. Già alla sua uscita lo eleggemmo a film su cui andava speso l’amore (se ve n’era) per il cinema, come Minnelli vi aveva speso il proprio. All’epoca Gianni Buttafava sottolineò benissimo la tenerezza di quelle banconote grandi come lenzuola che Ingrid Bergman teneva in mano. E Michele Mancini ben disse che, per sfuggire alla crescente omologazione degli elenchi dei film migliori dell’anno, si doveva indicare un solo titolo: o Nina o Salò di Pasolini. Anche quello di Minnelli è un film senza last cut d’autore in entrambe le versioni rimaste ma che tuttavia (come nelle varianti trasparenti di cui parla Elena Dagrada per Rossellini) non può non restare trasparentemente giusto, con un prolungato finale che è quanto di più atrocemente vero sul rapporto cinema-vita, e con quel rivolgersi in macchina di Liza Minnelli che utopicamente ci dice «il mondo venera gli originali», finale che ogni volta che lo vediamo ci fa piangere irresistibilmente. E che radicalizza quel rapporto campo/fuoricampo, che nel montaggio griffithiano si sospende in un’impossibile perfezione e di cui i grandi film (a cominciare da quelli di Griffith e Dreyer) colgono tutta la tensione: il finale di Triple agent di Rohmer (di cui diciamo nel catalogo), quello di My Son John di McCarey, il prefinale di Nina e l’ultima scena di Salò (in cui nel ballo della coppia maschile s’inserisce la nominazione di una presenza femminile) ci indicano il giusto approccio ai finali di opere “di genere” come il film di Čap o come L’ombra di Bianchi.
Abbiamo evidenziato qui nella citata rassegna un “da Cottafavi a Minnelli”, ma potremmo evidenziare un “da Camerini a Matarazzo” (autore, il primo, che nella sua messinscena da Giacosa fonda tutti i giochi di doppi sociali del suo cinema), o “da Lumière (1895) a oggi” (col film sulla chiusura della Renault, vedi al catalogo). Né abbiamo resistito a un programma che unisce Huillet-Straub (con Griffith/Dreyer inclusi) all’antieconomicismo di destra di Ezra Pound (in con­versazione con Pasolini, e il discorso sulla poesia che vi si svolge va oltre ogni possibile chiusura di schieramento rispetto all’antieconomicismo dei due autori), a – scandalo ulteriore – Nando Cicero, il cui cinema è un radicale rovesciamento scatologico dell’economia. Senza dimenticare la jouissance che nel cinema di Mattòli contraddice ogni economia: Accidenti alle tasse!!, col suo titolo giocosamente sfottente, è un film di puro divertimento in cui le invenzioni da commediante di Gisella Sofio o Dorian Gray si calano in un universo in cui, più che in Warhol, tutti diventano realmente delle star; e dove la parola, più che nei lettristi, crea cinema (e il Gran Khan ha come figlio il Gran Cucciolo). Avremmo voluto aggiungere altri titoli, ma se l’economia del cinema ha reso irrealizzato Un metro d’ombra di Cottafavi, il pur finito Ricchezza senza domani di Poggioli resta per ora un film perduto, e dunque possiamo solo alludere a una proiezione in coppia con Teorema, due officine della scuola anticapitalistica bolognese. Altre zone del programma del festival s’intrecciano con questo, dal film quivi incluso di Giorgio Bianchi (da De Benedetti e con De Sica) a La pila della Peppa che di Autant-Lara (come rivelerebbe anche Les Patates) evidenzia un anarchismo che, migrando nella vita da sinistra a destra (quando il cineasta ormai non fu più attivo), prolunga più di quanto si ritenne certi motivi del suo cinema. Siamo lieti di riprendere, con il sostegno del Comune di Trieste, un percorso da proseguire attraverso l’opera di un autore di cui ci attira anche il darsi come bandiera a battaglie civili e schieramenti opposti.
Esplicitiamo qui subito una delle “utopie” di I mille occhi: non abbracciamo gli autori per le loro scelte ideologiche ma per come esse si rivelano nel cinema, e siamo convinti che nel cinema non possono che rivelarsi con almeno una parte di verità. Il Premio Anno uno di quest’anno, Thomas Harlan (su cui rinviamo alla motivazione in catalogo), ha intransigentemente rifiutato l’uso propagandistico cui l’opera del padre Veit aveva aderito, ma questa è una ragion d’essere del cinema di Thomas Harlan, della sua verità, che non c’impedirà di cogliere lo splendore del cinema di Veit. Non è relativismo o assenza di convinzioni; è consapevolezza di poter riferire le proprie convinzioni (che ciascuno spettatore o cittadino deve liberamente formarsi) a tutto ciò che sa rivelarsi davvero come cinema, cioè come realtà. L’accettazione del premio da parte di Thomas Harlan è un altro dono che ci arriva, come è un dono la cartolina che lo riguarda di Guido Cero­netti. Thomas, anche se purtroppo per ragioni di salute non potrà venire a Trieste (e sarà rappresentato dal figlio Lukas Chester) si rivelerà, nel film-intervista e in un suo libro narrativo mai tradotto in italiano, conoscitore anche della storia e geografia della nostra città: e ancora una volta I mille occhi potranno sorprendersi di trovare certe cose per primi, e di rivelare un autore all’affermata germanistica triestina.
Per percorsi in parte anche casuali del programma, può articolarsi inoltre al suo interno una serata su nascita, contraccezione, aborto che sotto il titolo ripreso da Ozu (uno dei più bei titoli di film della storia del cinema, chissà quanto precisamente tradotto dal giapponese) riunisce una regia di De Sica, il primo segmento di un dittico di Autant-Lara (che il prossimo anno vorremmo riprendere al completo in versione francese) e un sorprendente Čap su cui rinviamo dentro il catalogo. Materia prima delle nostre scelte non è mai qualche scheletrico “programma” ma l’esistenza reale di certi film e autori. Non troviamo miglior smentita del nichilismo che nel riconoscere come, se non vi fosse (il film di) Čap, il nostro di­scorso sarebbe impossibile: e invece quel film rivela un pensiero sulla nascita davvero scandaloso, e rovescia il suo titolo già scandalosamente veterotestamentario (In principio era il peccato, in traduzione letterale) in una folle rilettura evangelica, di una paternità capace di generarsi in un altrove oltre codici di sterilità. Per l’omosessuale Čap il corpo femminile è un altrove totale tuttavia amato, il suo ingravidamento non può che essere opera di Dio, e ogni nascita è uno spostamento di altrovi che possono raggiungerci .
Il prefinale di Nina, col rapporto vita-morte compresente nel cinema; o il finale di Čap, con la madre che sente con ebbrezza in sé un’altra presenza, sono segni forti di come il cinema possa vivere la totalità dell’individuo. È il cinema (come speriamo di poter evidenziare in percorsi futuri sempre più rischiosi) che oggi può contraddire ogni ideologia della messa a morte, ogni integralismo opprimente individui o gruppi.
Avendo eletto con convinzione i cineasti maestri, possiamo frequentare con passione tutt’altro che contraddittoria gli irregolari, che lasciamo ad altri catalogare come irrigorosi, da Autant-Lara a Baratier al Brunello Rondi capace di travolgere i regimi criminologici del suo consulente in un abbraccio agli esseri di donna, a una Liliana Cavani che seppe dare al cinema italiano un film fondamentale come La pelle (rinviato al suo trentennale, nel 2011, per concentrarci stavolta sul suo trittico mitteleuropeo, segnato dall’attraversamento creativo di Kim Arcalli nei primi due tasselli, e da una voluta trasparenza, benché forse irrisolta, nel terzo). La partecipazione di Liliana Cavani al festival è la prova di come vogliamo incontrare autori affermati attraverso la natura più intima (quando c’è) del loro cinema, non diversamente da come scopriamo la forza di cinema di autori poco noti.
I percorsi si costruiscono per noi attraverso la realtà dei film e degli autori. Talvolta possiamo rinviare a qualche fuori campo perché il festival non può realizzare tutto insieme: abbiamo per esempio fatto un rinvio dal programma a Triple agent di Rohmer. Un altro rinvio, nei percorsi germanici di quest’anno, è a Krystàllines nychtes (1991) di Tonia Marketaki, incontrato a gennaio al Trieste Film Festival e che speriamo di riproporre in futuro in un omaggio all’autrice: un(a) cineasta che come la già proposta Larisa Šepit’ko o la desiderata Forugh Farrokhzad danno un corpo (femminile) allo sguardo del cinema. Abbiamo nominato tre cineaste prematuramente (usiamo pure quest’avverbio stupido) scomparse, come Andrzej Munk o Robert Rossen o Carl Th. Dreyer o Augusto Genina, cineasti di cui la vulnerabilità del corpo assunta nelle forme del cinema rivela la forza contraddittoria del cinema verso la negazione. È passando per qui, e non attraverso scontri di cultura, che oggi si può contraddire la morte di Sanaa Dafani o (Dio non voglia) di Sakineh Mohammadi Ashtiani, di cui la Maddalena di Genina prefigura la negazione di ogni scelta sacrificale.
Del cinema continua a meravigliarci incessantemente come il passare attraverso esso (ed “esso” è anche televisione o ormai internet, o ogni immagine anche fissa o solo desideratamente impressa) esiga rifiuto di sacrificio. Le icone florenskiane del festival, le immagini delle sue copertine e manifesti, sono state in questi anni presenze che contraddicono sacrifici imposti nella vita.
Questi cataloghi, finché il festival che li produce esiste, non possono non registrare ogni anno delle perdite, non certo per adesione tanatografica ma per evidenziare ciò che del cinema la contraddice. Quest’anno, oltre a quanti direttamente omaggiamo nel programma, sono usciti dal prolungarsi in cinema Joe Sarno, il Laurent Terzieff essenziale sia per Autant-Lara che per Baratier, il Bekim Fehmiu di splendidi film jugoslavi ma anche di La voce di Brunello Rondi, e alcune presenze essenziali del cinema italiano: Corso Salani, Enrico Achilli, Luigi Scattini, Lelio Luttazzi, Aldo Giuffrè, Tiberio Murgia, Massimo Sarchielli, Enrico Livraghi. Al solito sono le fuoriuscite femminili a mettere meglio in scena la natura del trauma: con Jean Simmons è sparito lo splendido triplice cast di Black Narcissus, già sottrattosi di Kathleen Byron e prima di Deborah Kerr; prima ancora Moira Shearer lasciava alla sola immagine la presenza di un’altra creatura powelliana, quale fu anche Jennifer Jones, allontanatasi quest’anno. E poi corpi attraversati da ritmi (Kathryn Grayson, Lena Horne, Lauretta Masiero), corpi formatisi nella carne (Elli Parvo)...
Questa introduzione preferisce espandere i percorsi del festival anziché chiosarli. La documentazione in catalogo, le note disseminatevi vanno fatte scoprire dai lettori-spettatori senza doverle qui “riassumere”. In particolare le due rassegne con curatela d’autore (mentre le altre, quando non direttamente riconducibili al direttore, sono a creatività plurima) si trovano nel catalogo sufficientemente ribadite e documentate dai due curatori. Sono grato a Olaf Möller e Dario Marchiori per le loro realizzazioni. L’idea di proporre una presenza attraversante il cinema (e la vita) come Zouc, capace di attrarre nelle espressioni del suo corpo mille altre presenze, è stata di grande lungimiranza. La scelta da dentro la Germania eppur a suo modo apolide di Olaf è un grande dono al festival: e non importa se si condivideranno tutti o in parte gli entusiasmi del curatore, certamente il suo viaggio merita di proseguire nelle future edizioni. Ne potranno nascere anche rassegne dentro la rassegna: per esempio su Frank Wysbar, che con Barbara realizza il progetto dreyeriano di filmare il romanzo di Jacobsen, e che qui ci permette di anticipare un percorso rinviato di Expanded Dreyer. E di anticipare anche una possibile rassegna Wysbar, che come di quella di altri autori appena accennati nella rassegna condivideremmo col curatore il desiderio. In altri casi il curatore potrà forse rimproverarmi percorsi di convergenza più in linea con le mie direzioni di sguardo che con le sue: talvolta le parallele fanno difficoltà a convergere, ma tant’è, la doppia presenza di film con Hildegard Knef esigeva un piccolo omaggio ulteriore (che avrei voluto arricchire con altri film, da La strada dei giganti di Malatesta a Fedora di Wilder), così come in futuro non mi priverò di allargare su Marion Michael o Nadja Tiller o la Belinda Lee anglo-italo-germanica o Marisa Mell, o sulle stelle provenienti dal Terzo Reich, da Zarah Leander a Marika Rökk alla Kristina Söderbaum senza età intravedibile quest’anno in un frammento di Immensee e alfine ripresa da Syberberg col Käutner la cui meravigliosa Marianne Hoppe approdò invece tra gli amori di Schroeter, capace di appassionarsi a Maria Callas quanto a Diana Dors o, nell’ultimo film, a Nathalie Delon con la Bulle Ogier già nostra ospite e la Amira Casar dell’ultimo Baratier e di un fondamentale Breillat.
La realizzabilità dei sogni del nostro festival è sospesa a incertezze. Spesso indichiamo nelle note dei possibili percorsi che, seppur molto desiderati, si rinviano. Ogni nominazione nel programma di sala (che ogni anno costituisce un necessario allegato al catalogo) delinea percorsi ulteriori. Via Rondi e Cavani vorremmo raggiungere Liliana Tari. Con Corman abbiamo avviato un contatto con Sally Kirkland per omaggiare Lana Clarkson, da incontrare con altre dalie dal destino mortale (da Elizabeth Short a Jayne Mansfield a Sharon Tate a Anna Nicole Smith a Zoey Zane), sottraendo il cinema alla macchina di morte qui coniugantesi con una perversione di cui il fermo immagine dadaista o angeriano, coi revisionismi nascosti nel rock, non è l’unica opzione. Thomas Harlan e René Girard c’insegnano a stare comunque dalla parte delle vittime.
Lo avremmo fatto, omaggiando Meredith Kercher, qualora ci fosse stato concesso di aggiungere alla serata Rondi uno strano oggetto, il mediometraggio L’ultima città di Claudio Casini, in cui tra le detenute del carcere di Perugia compare come attrice la sospetta colpevole Amanda Knox. Ma l’istituzione che lo ha prodotto, e che già lo bloccò spaventandosi dell’“attenzione mediatica” due anni fa a Batik, lo vuole far attendere esiti finali giudiziari o magari giudizi universali.
Prima di soffermarci (anche in relazione ai percorsi legati alle presenze) sulla scelta Bianchi come essa richiede, s’imporrebbero molte altre espansioni di di­scorso. La vita quotidiana di ciascuno di noi vi offrirebbe materia, cinematogra­fica non meno di quella fermatasi nelle immagini dei film. Tutti noi abbiamo ­qualcuno verso cui percepiamo la nostra vita come un’atroce oscillazione tra il campo e il fuoricampo; qualcuno che nel fuoricampo c’è ma potrebbe cessare di essere, se non lo precederemo noi stessi. E tutta la società in cui viviamo è sospesa nell’egoistico chiudersi in un campo costretto a dimenticare molti fuoricampi: dalle masse dei morti che Canetti seppe fermare, all’atroce scricchiolare di ossa che come Poe dovremmo essere costretti a percepire in ogni istante, perché (come ogni stupida statistica ci direbbe) “in questo preciso momento nel mondo stanno morendo...”.
Di fronte a ciò, il legarsi del cinema a un piacere di visione è una colpa? E se ciò che lo ha attraversato è solo un’infima parte degli esseri, concentrata in poco più di un secolo nelle durate dei tempi, non è il suo territorio anfibio tra la vita e l’immagine un po’ ridicolmente vano? Oggi la tendenziale infinitezza delle immagini raggiungibili via internet (comprese quelle che più esigono un’attrazione di consumo sessuale per non apparire indifferenti, dagli oltraggi gonzo alle loro più re­centi varianti seriali, gli scat-puke-spit di certe determinate performer britanniche o di sottomesse brasiliane, thailandesi, giapponesi glamourizzate da messinscene perverse, oppure le drunk russe talvolta passive talaltra provocanti, oppure la ricerca francese di “fiori nel fango” come le gemelle Sandrine e Clementine; fino all’hard alluso nei divismi di cronaca, da Anna Chapman a Anna Fermanova) è una smentita alla presunzione che la geopolitica del mondo in cui viviamo sia illuministicamente rasserenabile.
È passando di qui che dovevamo arrivare a Giorgio Bianchi: un regista certamente discontinuo, talvolta realmente minore o di derivazione. Non si tratta di perseguirne una piena espressione d’autore, come per McCarey o Cottafavi (su cui invece bisogna spingere rispetto alle precedenti scoperte critiche, non dimensionare). Ma altrettanto sbagliato sarebbe accecarsi con trite catalogazioni come mestierante o professionista o confezionatore. Diciamo allora, che aldilà di di­sperse intuizioni (di chi scrive, di Adriano Aprà, di un Amelio tuttavia troppo li­mitato nell’attenzione verso le commedie, per un po’ di Tatti Sanguineti poi ­concentrantesi tra Sonego e Andreotti) non si è detto ancora quasi nulla di Gior­gio Bianchi, e vedendone molti film ci si sorprende che possa essere così.
Forse sono altri cineasti che l’hanno saputo apprezzare meglio, dai sottovalutati Palermi e De Robertis che gli affidarono coregie, a Fabrizi o De Sica e Sordi che (questi prima di litigare con lui) lo ebbero splendido complice, a Fellini che adorò Totò e Peppino divisi a Berlino e che ne viene omaggiato in Intrigo a Taormina. Altri cineasti forse non si accorsero di come convergeva con loro: e non dico di Monicelli che consapevolmente lo sottovaluta, penso a Rossellini da cui riprende Pellati e Franchina (e che avrebbe dovuto vedere in Accadde al penitenziario un film gemello di Dov’è la libertà), o Cottafavi (via Elisa Cegani, e per Cronaca nera che fa splendida coppia con Avanzi di galera), a Camerini che per ragioni di diritti lo portò in tribunale, a Castellani che gli prestò il terzetto di interpreti di Sotto il sole di Roma, a Genina e Freda che forse non conobbero la sua ripresa di Toren e Canale, al Matarazzo (con Freda) il cui splendido L’avventuriera del piano di sopra fu rifatto in Buonanotte... avvocato!, a ancora Cottafavi, Freda, Matarazzo che non videro in Il caimano del Piave il completamento del triangolo Fiamma che non si spegne/La leggenda del Piave/Guai ai vinti, rispetto ai quali La nemica è il prologo più feroce. Non diciamo nemmeno dei cineasti e critici francesi che lo ignorano totalmente, anche se Brevi amori a Palma di Majorca contiene una splendida beffa a André Breton e Intrigo a Taormina è la vera ­nouvelle vague italiana, anche se Graziella affida a Mocky un ottimo Lamartine, che spinge in direzioni post-romantiche (fu Artaud a interpretare un’altra Gra­ziella, nel 1925), con una Fiore che (come in un finale di Oliveira o Dreyer) giunge a dire che «è l’amore che è una cattiveria».
Ma i francesi hanno scoperto abbastanza del cinema italiano. Com’è che invece nessuna storia del cinema italiano si accorge delle almeno tre vite attraversate da Bianchi? Che fu attore a cavallo tra muto e sonoro (anche protagonista per una delle poche regie del sottovalutato De Benedetti, La Grazia), direttore di doppiaggio dal 1933 al 1941, e alfine regista che celò nella frequentazione della ­commedia (talvolta splendida) delle grandi nerezze, a contraddire un nome su cui lui stesso sapeva giocare, come nei titoli di testa di Il moralista che montano il credit registico con l’insegna luminosa del Gatto Bianco. Bianchi si sapeva gatto nero, e su Il moralista s’impone un hic Rhodus hic salta: chi, riferendosi ai suoi scontri con Sordi che portarono ad affidare il completamento del film a De Sica, volesse sottrargli filmograficamente questo capolavoro (film di precipitazioni mo­rali quasi brechtiane, oltre che atto di coraggio civile), si ingannerebbe del tutto. De Sica ha spesso fatto da ottimo ghost-(co-)director, per Risi e per altri; Sordi è sempre anche coregista; ma qui c’è anche Bianchi concentrato, come nessun Lizzani o Fellini può togliere a Rossellini Germania anno zero o Dov’è la libertà, può al più convergervi. Il film compie al miglior livello il racconto morale di Via Padova 46, film sull’atto mancato di un soltanto voluto incontro d’amore che trova compimento nel fuoricampo del delitto.
In questo rapido attraversamento abbiamo già nominato alcune presenze che, quest’anno o il prossimo, meriterebbero percorsi ulteriori. Vanno aggiunti altri interpreti: maschili, da Franc(esc)o “Geppa” Golisano e Oscar Blando al Frank Latimore (lo Stuparich triestino del Caimano) doppiato da Giulio Panicali come per Genina; e femminili, come Clara Calamai, Maria Denis, Lea Padovani, Maria Michi, Liliana Mancini, Mara Berni, Sylvia Lopez, Belinda Lee, Dorian Gray, Sylva Koscina, Daniela Rocca, alle più che meteoriche Arlette Poirier e Anna Rasmussen.
Ma: c’è un seguito?

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