Delahaye Michel
Introduzione a Michel Delahaye
di Sergio Grmek Germani
Compie ottant'anni il 21 settembre
Michel Delahaye ma le sue condizioni fisiche gli impediscono di
raggiungerci al festival, dove tre giorni dopo gli si dedica il primo
segmento di un omaggio che proseguirà il prossimo anno col
completamento dell'intervista iniziata con lui da Roberto
Turigliatto, con la presentazione dell'antologia dei suoi scritti di
cinema d'imminente pubblicazione in Francia, e auspicabilmente con la
proiezione di qualche altro film di cui è stato interprete
(mentre quest'anno, insieme al film-intervista dedicatogli da Pascale
Bodet, si presenta il film a episodi che contiene la sua unica regia
insieme alla sua interpretazione in un altro episodio diretto da
Marie-Claude Treilhou).
Avremmo voluto presentare in aggiunta
il lungometraggio della Treilhou di cui è stato interprete e
cosceneggiatore (Simone Barbès ou la vertu),
e almeno uno dei film della fondamentale collaborazione con Paul
Vecchiali (che è anche produttore e uno dei registi del film a
episodi in programma). Già negli anni scorsi I Mille Occhi
programmarono con lui Corps à cœur
e Change pas de main
di Vecchiali per l'omaggio a
Myriam Mézières, che vedremo tornare almeno su schermo
con En haut des marches,
il film della presenza più autobiografica di Delahaye: «Je
suis de Nantes...»
per poi collegare se stesso e le Darrieux e Presle cointerpreti al
cinema di Demy, uno dei più intensi rapporti cinematografici
nel percorso di Delahaye.
Ma
Delahaye c'interessa per il suo amore degli arcipelaghi, per il suo
non affidarsi a centri totalizzanti di cinema. Prima di soffermarci
sulla sua attività critica aggiungiamo che, tra i mille
mestieri che egli ha voluto/dovuto sostenere (legati anche a una
condivisa povertà sociale), quello di attore, raramente
protagonista, spesso un lavoratore di film che siano d'autore o di
genere, si rivela, al di là dei rapporti marcanti (Vecchiali
soprattutto), nella frequentazione di set distanti tra loro, dalla Nouvelle Vague a Jean Rollin e Borowczyk (due cineasti uniti dalle
presenze di Delahaye e Marina Pierro, più che dal molto
diverso rapporto con l'erotico e col fantastico). Tra la novantina di
film interpretati, prima del recente ritorno coi cineasti vicini a La
Lettre du cinéma, la
rivista che l'ha fatto tornare anche alla scrittura critica, uno
degli ultimi film (accanto ad alcuni di Biette) era stato il corto di
Eustache La Comédie du travail (pubblicato
in dvd come allegato alla bella rivista di Eisenschitz purtroppo
estinta).
Dopo
molti mestieri (tra cui l'esperienza di cronista-scrittore a
Détective)
Delahaye, nato nel 1929, approdò alla critica cinematografica
nella seconda metà degli anni '50, dapprima a Cinéma,
Premier plan e alla
Présence du cinéma premacmahoniana,
poi coinvolto da Rohmer nei Cahiers du cinéma,
per restare uno dei collaboratori più importanti della fase
Rivette: passaggio che tuttora Delahaye vive con un senso di rottura
interiore. La collaborazione con la rivista s'interromperà
brutalmente nel 1969, nel ruolo di vittima di un processo maoista
condotto da Narboni per conto di Comolli contro un redattore non
omologabile ideologicamente.
Attendiamo
con molto interesse l'annunciata antologia francese dei suoi scritti
di cinema (che sarà il primo volume con autore Delahaye dopo
il romanzo L'Archange et Robinson font du bateau,
scritto nel 1974 e pubblicato dalle edizioni Champs Libre di Gérard
Lebovici, e a parte una collaborazione al volume Ouvriers,
paysans nella collana
straub-huilletiana di Louis Seguin presso Ombres). Senz'altro
l'antologia dovrebbe mettere al centro il corpus degli scritti su
Demy, in ulteriore posizione privilegiata il testo su Pagnol
(splendida avventura marsigliese del nostro bretone), con attorno gli
scritti sugli autori Nouvelle Vague (di cui oggi, tranne Rohmer, Demy
e in parte Truffaut, Delahaye fa proprio il più estremo
rifiuto lourcellesiano), quelli su certi autori americani (Lang fa
ponte da Présence a
La Lettre), sui citati
Straub-Huillet (per i quali era stato anche interprete), sulle nuove
cinematografie esteuropee, compresi Klopčič
e gli apolidi Kristl e Borowczyk, di cui oltre che interprete egli è
stato importante intervistatore. In quest'ultimo ruolo l'attività
di Delahaye trova a nostro avviso la massima punta teorica nel numero
dei Cahiers che unisce
Dreyer e Riefenstahl, forse il numero più milleocchiesco della
storia della rivista, quello in cui la cineasta del nazismo non si
teme di avvicinare al cineasta più antinazista di tutti i
tempi.
Per
questo omaggio non potevamo né volevamo offrire un'antologia
sistematica. Volevamo antologizzare il Delahaye più
interstiziale, quello cui amiamo dedicare una delle più
interessanti letture possibili dentro i Cahiers,
non la ricerca di doxe per quanto ispirate da apporti geniali ma la
ricerca di margini spesso non meno importanti. Su questi margini vi
sarebbero anche scritti troppo vicini all'applicazione del canone
della rivista: il cinema inglese sembra per esempio restare la bestia
nera anche nelle eccezioni più sregolate, da Powell a Michael
Reeves.
La nostra piccola
antologia parte dallo scritto sul film di Lumet, che ci sembra
contenere una sorta di poetica critica delahayana.
Prosegue
coi suoi due scritti più importanti sull'Autant-Lara di cui ci
stiamo occupando (e su cui in più ci sarebbero la recensione
di Le Franciscain de Bourges autocriticata
nello scritto successivo da noi pubblicato, e l'intervista realizzata
con Narboni che, prima di diventare suo accusatore, era stato il
complice più vicino, oltre che nell'azzardo Lautner, nella
scoperta dell'Autant-Lara sregolato che i Cahiers non
vedevano e, mentre il "terrorista" Truffaut cominciava a
relativizzare il proprio rifiuto, erano proprio i più
intelligenti critici dell'era Rohmer - Demonsablon, Domarchi,
Douchet - a sottolineare quel rifiuto). La vicenda del rapporto con
Autant-Lara, anche se oggi non appare segnarsi nella memoria di
Delahaye, rivela a nostro avviso non solo giochi di schieramento
interni alla rivista, ma in primis il ruolo di un critico che fa du
bateau.
Abbiamo
poi riunito alcuni testi brevissimi sul cinema italiano più
"piccolo" con le sue zone nascoste: il bel testo sull'ormai
divenuto classico di Risi, il sorprendente corpus dei tre testi
jacopettiani (forse gli unici testi da cui si potrebbe partire per
rovesciare il rapporto con un regista su cui anche chi scrive si
sente più vicino al rigetto messo in atto da Antonio
Pietrangeli - e che il destino di Belinda Lee, pur omaggiata in La
donna nel mondo e naturalmente
non per logica di verdetto, ribadisce), e alcuni testi che toccano
autori da riscoprire al di fuori di funeste pseudorivalutazioni
trash: Salce, Germi (messo in rapporto ai due scoperti grandi Ferreri
e Bene), Festa Campanile. Di Brunello Rondi purtroppo si è
accorto solo il più medio fiancheggiatore Mardore. Di Giorgio
Bianchi, o di Cicero, ahimè nessuno. (Delahaye ha scritto
anche su Le legioni di Cleopatra ma
il testo, pur interessante, resta nell'ombra dell'audacia mourletiana
dai Cahiers a
Présence).
Concludiamo
l'antologia con lo scritto sul film di Baratier che ben apre il
blocco successivo del catalogo e del festival, così come gli
scritti su Autant-Lara si ricollegano al blocco precedente.
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