Introduzione
Diario di visioni future - Diary of Future Visions
di Sergio Grmek Germani
Pensi che possano curare questo fuoco? Perché dovrebbero curarla? Essa vuole lasciare il segno del suo desiderio su ogni essere vivente al mondo. Se fosse un Cesare lo farebbe con la spada. Se fosse un poeta lo farebbe con le parole. Ma è Lilith; deve farlo col suo corpo.
Lilith - Jean Seberg nel film diretto e sceneggiato da Robert Rossen, dal romanzo di J.R. Salamanca
Non ci loderemo da soli (programma sempre più ricco, tanti partner nelle collaborazioni, catalogo con molte cose, ora anche in versione inglese, ecc.) perché tutto questo è ancora solo la sceneggiatura del film da realizzare. Il festival avverrà nel suo svolgersi, a Trieste dal 19 (con preevento il 18) al 27 settembre, con alcune postille (a Torino dall’1 al 3 ottobre, ancora a Trieste per la rassegna Wiseman, ecc.). Anche se il programma e la sua scalettatura a calendario sono frutto di scelte determinate su ogni titolo e ogni collocazione, saremmo dei buffoni a non aver imparato dal cinema, arte di corpi, che ciò che conta è incontrare altri corpi, raggiungere occhi che attendono l’immagine capace di cambiare la loro vita, come nella cristallizzazione desiderata da Stendhal (De l’Amour). Ci sottraiamo alla mistificazione corrente della finta popolarità, di un pubblico dato per costituito e interessato naturalmente solo a ciò che conosce, impenetrabile alla scoperta. Non riproduciamo falsi riti di evento mondano e richiamo mediatico, proprio perché del cinema troppo amiamo l’essere il luogo dell’incarnazione: che un festival non può non desiderare di rimettere in vita, con le presenze dal vivo (ordetianamente anche di chi non è più, perché come ci insegnano Canetti, Audiberti e Lang, “la morte non è una soluzione”) e con l’intensità che nasce dalla contiguità tra presenza su schermo e presenza in sala. Non abbiamo problemi a confessare che anche noi (come Stendhal e Truffaut amanti delle attrici) porteremmo volentieri su un red carpet Nicole Kidman, Sharon Stone, Uma Thurman e Charlize Theron, né d’invidiare al mondanissimo festival di Capri Hayden Panettiere e Lindsay Lohan. Siamo convinti che quelle presenze si esalterebbero, come in un’icona warholiana o in un’enciclopedia visiva di Sacha Guitry, a fianco delle presenze che raggiungono il nostro festival, accanto alle immagini che compaiono sul nostro schermo. E non certo in una diminutio ai 15 minuti di fama che a tutti la civiltà nichilista concede, bensì in quel desiderio di Gloria che Audiberti eleggeva a destino senza né ingannare né ingannarsi. Cosa c’è di più grande nel cinema che la sua capacità di non farci dimenticare i corpi? Nel programma di quest’anno saranno presenti alcuni dei massimi fari di questa consapevolezza, dal miracoloso Ordet di Dreyer, luogo centrale del pensiero incarnato, ai due capolavori finali di Rossen, The Hustler e Lilith, che chi scrive pone tra i dieci film più belli di ogni tempo, così come Tre storie proibite di Genina è, con le punte di Rossellini e Cottafavi, il vertice assoluto del cinema italiano, il film che si scontra con la fatalità della civiltà che travolge corpi e le contrappone il désordre della passione: per noi il film che, ponendo al centro la catastrofe che travolge corpi, va contro le debolezze della civiltà contemporanea, quelle che piattamente si accettano nelle cronache telegiornalistiche, ma non solo – anche nel nostro colpevole dimenticare la compresenza del qui e dell’altrove, nella banalità del male che ci fa accettare costantemente che, in questo stesso momento, da qualche parte una morte non stanca avanzi, che il profit motive fermi il whispering wind. Passiamo quindi al diario di una realtà che, durante il festival, deve ancora avvenire, percorriamone il “programma” sperando che questo diario sia letto da spettatori reali, che la pluralità irrinunciabile per il cinema (di desideri e di corpi) raggiunga la pluralità di mille occhi. Il programma può essere visto da spettatori concreti nella sua integralità, auspicabilmente (non certo terroristicamente), perché siamo un festival di monosala, che gioca solo offrendo qualche alternativa di complemento informativo in sala video (dove quanto non ha alternative nella vera sala andrebbe a rigore visto, quanto ne ha è la pista di una second life che si vorrebbe non solo virtuale). Questo programma è rivolto a occhi vivi, anche quando appartengono a chi non è più con noi, dai cinefili amici come Piero Tortolina, a quanti dentro il programma sono dedicatari di proiezioni (“Proiezione per...”, con cui si vorrebbe unire l’importanza di una messa alla leggerezza della visione spettacolare), a quanti solo qui possiamo nominare: registi di vero stile come Dino Risi e Joseph Pevney, presenze di donna (che anche i precedenti hanno immaginato) come Anicée Alvina, Yvonne De Carlo, e ancora (nell’ultimo anno) Deborah Kerr, Hazel Court, Eva Dahlbeck, Cyd Charisse. Nostri contemporanei e presenze del nostro desiderio, per un festival che rifiuta il pensiero totalitario (cfr. Vampyr) secondo cui da una parte ci sarebbe il cinema della “produzione” corrente, che esisterebbe per gli spettatori di oggi, e dall’altra i luoghi delle retrospettive destinati a cultori e studiosi specifici, siano “di nicchia” o “di culto”, “fanatici” di “chicche” e altre vacuità. Nulla di tutto questo nel nostro festival, dove tutto appartiene al presente e nulla è retrospettiva o cassa da morto. Un festival che crede nella fedeltà a chi lo incontra (sia cineasta o spettatore), pur sapendo che le visioni da desiderare e non ancora incontrate sono infinite.
Giovedì 18 settembre.
Un luogo ancora non attraversato dal festival (la Baia di Duino), che ci fa tornare nel pensiero alla nostra prima edizione sul mare, al Molo IV, poi preclusoci dalle indifferenze che dominano le pseudo-politiche culturali con cui dobbiamo rapportarci. Il film di Breda Beban (su cui diremo per la “replica” in sala) ritorna nel luogo in cui fu girato, Duino. Ispirato a un segmento delle Elegie duinesi di Rilke, come Death in the Land of Encantos di Lav Diaz. Lo vedremo in un’azione dal vivo perché del cinema amiamo l’espandersi.
Venerdì 19 settembre.
Per cominciare un festival ci vuole, alla lettera, il titolo giusto. They Won’t Forget, col suo malinconico monito alla memoria, lo è. È anche il giusto inizio cronologico del percorso con Robert Rossen, il regista il cui nome sta in Roberto Rossellini e di cui vogliamo ricordare il centenario della nascita contro la cattiva selettività delle celebrazioni. Ed è il film che contiene la prima rivolta rosseniana al sacrificio di corpi femminili, con la giovanissima Lana Turner vittima di un omicidio (seriale?) di cui restano impuniti i veri colpevoli, sacrificando invece l’agnello dei deboli da parte di una società omicida. Di Rossen abbiamo scelto, tra i film da lui sceneggiati prima del passaggio alla regia, i più preautoriali, persino più contigui al magico Rossen finale che alla faticosa “conquista dell’immagine” (per mutuare un’espressione cottafaviana) delle sue regie precedenti. Abbiamo dovuto accantonare dal programma due altre sceneggiature (che saranno visibili a richiesta, come tutto il resto del cineasta, in sala video), Dust Be My Destiny, che avremmo voluto aggiungere non solo per un meraviglioso James Wong Howe e l’epocale John Garfield ma per l’incantato matrimonio prelilithiano con la radiosa Priscilla Lane che torna nei Warner successivi; nonché Edge of Darkness, per la sua ambientazione nordeuropea che coniuga Ibsen con la Resistenza, per la vulnerabile prostituta polacca di Nancy Coleman, e per l’esoterico (quindi rosseniano) internazionalismo che invita i resistenti a essere come steel, come acciaio, con suono e concetto che, ripetendo la parola perché ben si intenda, evocano il nome di Stalin: un film insomma che si pone a corpo del reato per la persecuzione maccartista di Rossen. Titoli che illustrano splendidamente il potenziale antisociale e rivoluzionario della Warner classica. Per la second life in sala video un altro titolo-incipit: De l’Amour, benché riteniamo questo Aurel da Stendhal via Saint-Laurent (preferibile forse nella sua forma pura e “volgarizzata” che in coniugazione con Stendhal) meno convincente dell’altro loro, sempre con Anna Karina, che vedremo in sala. In video si può poi proseguire il percorso rosseniano con una sceneggiatura non accreditata per Seiler, Heart of the North, dove colpisce la determinazione antinichilistica nell’episodio di un vecchio che vendica l’uccisione di un albero. Ma in sala c’è il primo Baratier del periodo al centro di quest’anno, tra fine anni 50 e inizio anni 70: Goha, film a versioni plurime che quest’anno vediamo nella copia personale dell’autore. Con un giovane Omar Sharif, una giovanissima Claudia Cardinale proveniente dal concorso di “più bella italiana di Tunisi”, e con presenze di caratteristi da Lauro Gazzolo a Daniel Emilfork. Si inaugurano poi due piccole esposizioni, che faranno incontrare Bruno Pincherle e Vittorio Cottafavi, probabilmente mai conosciutisi, anche se entrambi hanno incrociato Stendhal. Né sappiamo se il nostro concittadino fosse stato spettatore dei film ispirati a Stendhal, che in questo festival gli offriamo. Sappiamo però che scrisse saggi su Alfonso Corti, scienziato che studiò sia la retina che la spirale dell’udito. E Cottafavi dedicò la sua casa editrice al brigante Migliaresi, come fu un poeta-bandito l’omonimo del Ferrante Palla che Pincherle adottò a proprio pseudonimo di autodifesa dall’antisemitismo (firmando così un’edizione stendhaliana curata con Bruno Maffi, traduttore di Marx e a lungo direttore del giornale bordighiano). Della serata preinaugurale, con la pubblicità Stock, scriviamo in un testo nel catalogo. Non è un tocco trash (termine usabile solo tra virgolette) al programma, ma la convinta vaganza attraverso la molteplicità del cinema. Come Audiberti crediamo che molte cose (come molte donne) meritino amore. Se fu vitale l’epoca degli amori cinematografici escludenti (l’epoca della grande critica, soprattutto francese, tra anni 40 e anni 60) oggi si può non temere l’eclettismo includendo. La giornata si conclude sulla lunga versione integrale di L’Amour fou di Jacques Rivette (già critico grande tra i grandi), alla presenza di Bulle Ogier: una delle presenze più amate della storia del cinema (forse solo in Natalie Wood la filmografia è altrettanto marcata di capolavori, e ciascuno passa attraverso lei, pienamente attrice eppur singolarmente se stessa: davvero Bulle toujours, non solo per echeggiare l’assente capolavoro di Oliveira che chiosa Buñuel, il regista che fece avvicinare Bulle al cinema). Dichiariamo inoltre subito che con L’Amour fou cerchiamo una rima tra apertura e chiusura del festival poiché Rivette fu nella banda di critici che amò subito Lilith, e in questo di poco successivo suo capolavoro alcune cose (la luce stessa, quelle scritte sulle pareti che articolano un inconscio) ci evocano il sommo capolavoro di Rossen. Con la recita nel film, L’Amour fou prelude anche al percorso che il prossimo anno vorremmo dedicare a Racine nel cinema.
Sabato 20 settembre.
La visione in video di The Roaring Twenties è obbligata per chi si appassiona a Rossen: qui e altrove (Gentleman Jim, Band of Angels) Walsh appare, pur nelle contiguità di temi e fonti, incommensurabile con Rossen per adesione leggera e avventurosa all’immagine. Eppure il film che seguirà in sala (A Child Is Born) contiene non solo un ritorno Warner di cast, con la splendida Gladys George, ma proprio dalle labbra di lei una firma da parte di Rossen sceneggiatore, che le fa cantare la stessa canzone che nel precedente melancholycamente baby canta Priscilla Lane. Interessante anche che il film di Walsh diventi per Rossen una lezione di cinema: dirà a Robert Parrish di ispirarsi al suo montaggio per rendere funzionante il troppo lungo All the King’s Men. E mentre per la second life c’è in sala video la più recente versione cinetelevisiva di Le Rouge et le Noir, con pregevoli interpreti in Judith Godrèche e Carole Bouquet, in sala s’impone A Child Is Born, e a sua volta impone un sequel in Ordet giacché si conclude su un desiderio di resurrezione, per un parto che uccide la madre, ciò che appunto Dreyer non può accettare. Altre cose nel film di Bacon ci colpiscono per Rossen, come la figura di una folle prelilithiana. Segnaliamo che il film (o piuttosto il testo cui si ispira) ebbe un remake da parte di Camerini, Una storia d’amore, che pensammo di proiettare per l’occasione ma a visione fatta ci sembrò meglio riservarlo per occasioni più proprie: il film è bello finché cameriniano, e proprio la matrice della fonte è piuttosto subita. Per Ordet basterà rinviare al testo di Rohmer in catalogo, capolavoro di critica, anche per la personale e dichiarata idiosincrasia verso la sequenza del parto. Che è un vertice di rovesciamento nella falsificazione dei procedimenti cinematografici: si odono i suoni del vero parto dell’attrice-protagonista, perché, dirà Dreyer, è essenziale vivere la realtà per desiderare che si sottragga alla morte. Aggiungiamo soltanto che questo film sulla parola s’intreccia magnificamente con altre parole nel programma: di Mankiewicz, di Audiberti, dello stesso Rossen... E che è il primo programma del ciclo trasversale Convergenze parallele, che volutamente riprende l’invenzione verbale di un grande politico-cinefilo, Aldo Moro. Con La Salamandre ritroviamo una grande Bulle, da Tanner scoperta proprio in L’Amour fou, e perciò preferita per il film a un’altra grande rivettiana, Juliet Berto, come Tanner racconta nella bella videodichiarazione che vedremo prima del film. Per il nostro festival Tanner, che pur non vi fu sinora fisicamente presente, è un ritorno a un altro suo ciclo con centro femminile, il trittico con Myriam Mézières che presentammo il primo anno alla presenza di lei. Dragées au poivre non è solo una provocazione di Baratier verso nouvelle vague e cinéma direct, è uno dei più goduti (diamo un peso al termine) film degli anni 60, con un’incantevole pluralità di presenze. Tra esse una Rita Renoir antropologa stripteaseuse in un numero da baccante, che non può non incidersi nella memoria. Possiamo presentare l’unica copia esistente del film grazie all’autorizzazione della coproduzione italiana (lode quindi a ciò, con ulteriore moltiplicazione delle presenze, tra cui splendido Caprioli); si tratta della Compagnia che fu di Tonino Cervi e cui fu associato Piero Vivarelli, e perciò abbiamo voluto aggiungere godimento col film coevo diretto da Vivarelli per la stessa produzione.
Domenica 21 settembre.
La giornata si apre con Bulle, con un affettuoso documentario dedicatole. Per la second life c’è poi uno Stendhal trattato impropriamente da Christian-Jaque (e che andò a sostituire un progetto dal romanzo da parte di Aurenche, come più tardi non si realizzerà quello di Autant-Lara), e tuttavia con presenze di cast interessanti (andrebbe vista anche la versione italiana: in ciascuna gli attori non nazionali sono doppiati da altre voci). Ma in sala s’impone il programma Baratier col presessantottesco Eden Miseria (che all’epoca fu abbinato a Le Désordre à vingt ans, ma sappiamo che sia Baratier che il produttore Dauman giocarono più volte volentieri con gli accostamenti variabili tra corti o film-segmento) e il postsessantottesco erotico con bellissime Nathalie Delon e Muriel Catala. Ci avrebbe fatto piacere abbinare Vous intéressez-vous à la chose? a Ultimo tango a Zagarol di Cicero perché entrambi parodiano Bertolucci: il film di Cicero l’abbiamo già presentato anni fa, ma solo la ristrettezza di spazi ci ha costretto a rinunciarvi, mentre s’imponeva una giusta risposta alle recenti esternazioni del più sopravvalutato regista e direttore di festival italiano.
Al termine di un incontro con e su Baratier è prevista la sua prima regia, il corto Désordre più volte rimontato (già questa pare sia la seconda versione, “critiqué par Paul Guth”, a sostituzione del precedente commento di Gabriel Pomerand). Dalle 19.30 a notte una maratona di godimenti di donna. I cinque segmenti in successione di Breda Beban evocano nei primi piani orgastici l’estasi di Santa Teresa d’Avila. Il dittico di Cottafavi, con donne che uccidono uomini uccisori dell’amore, è tra i vertici assoluti del cinema italiano. La costruzione en abîme del primo, con la protagonista che rifiuta il destino della Butterfly come alla fine la donna che si sottrae alla replica rifiuta il destino della Karenina, e con Lianella Carell che impara da Lidia Cirillo (che nel film rivive la sua storia vera di condannata per omicidio), torna nel secondo film con la Carell nello stesso ruolo di modello rifiutato che fu nel primo della Cirillo. Inoltre musica (Renzo Rossellini e Čajkovski), parole della Bibbia come in Rossen e Dreyer, la festa degli inesistenzialisti come in un film di Steno girato da Dreyer. In breve la grandezza di Cottafavi che ormai solo un cieco potrebbe non riconoscere senza colpa. A conclusione il bel Lamiel di Aurel da Stendhal via Saint-Laurent, con un’emozionante Anna Karina che incontra la finzione dell’“allora l’amore è solo questo? non c’è nient’altro?”, cioè di uno dei luoghi della letteratura che sono già grande cinema e grande specchio della vita. Tuttavia si sarebbe voluto veder realizzato anche il progetto dal romanzo che nel 1960 Jean Aurenche scrisse con Paul Gégauff per Chabrol.
Lunedì 22 settembre.
La mattinata ripropone in video un film piuttosto noto, ma forse tra i più sottovalutati di Dario Argento, con protagonista Asia Argento: benché il suo legame con Stendhal sia “arbitrario”, ci sembrava giusto offrirlo nel contesto della rassegna. Sarà però opportuno non rinunciare al doppio programma Baratier in sala, che è anche un omaggio a un grande Jacques Dufilho, uno di quei comici francesi (con Bourvil, De Funès ecc.) su cui varrebbe la pena soffermarsi. Il lungometraggio è tratto da Audiberti, e ci introduce all’universo di uno scrittore francese tra i più grandi, totalmente ignorato e poco tradotto in Italia. Anche grande scrittore di cinema, come possono far capire alcuni suoi testi da noi tradotti. Su Tre storie proibite si è già detto quanto ci teniamo sia nella parte iniziale di questo testo che in quello inserito nel corpo del catalogo, che prova a rintracciare vari fili nel programma. Basterà aggiungere, a ulteriore conferma dell’eccezionalità del film, come esso sappia unire un corpo-centro (la sublime Eleonora Rossi Drago cui dedichiamo anche la proiezione), con la pluralità di presenze incontrantisi nel luogo della catastrofe e nelle finzioni intrecciate degli episodi: nel primo un’altra presenza dalla voce materica, Lia Amanda (mentre la figura della madre è di una delle prime dive carnali degli anni 30, Isa Pola), nel secondo (doppiata da Rosetta Calavetta, voce italiana di Marilyn) una brillante e sensuale Antonella Lualdi, che va segnalata tra le presenze chiave di questo festival, dato che la ritroviamo in entrambi gli Autant-Lara stendhaliani. Aggiungiamo soltanto che il sacrificio di Eleonora Rossi Drago è tra i traumi più assoluti del cinema (ma i sacrifici geniniani, da Louise Brooks a Ines Orsini a Marta Toren, non sono accettati dalla regia), come in un Intolerance griffithiano in cui il condannato a morte non riuscisse a salvarsi: già in Griffith il mito cristiano dell’elezione (in un film che parte appunto dal sacrificio cristologico) è quasi parodiato, nel presunto uomo d’ordine Genina esso è vanificato. Solo da lì può partire la parola della resurrezione dreyeriana, cioè del regista il cui cinema attraversa le culture religiose recuperandone i desideri ma nella convinzione che le risposte ad essi arrivino più dalla natura del cinema, arte di corpi, che da una trascendenza. Mentre in sala video si possono poi integrare i testi parastendhaliani di Brancati, in sala possiamo incontrare Ornella Volta, figura fondamentale tra quante hanno un rapporto con Trieste. Rimandiamo al suo lungo, appassionante testo autobiografico, all’interno di cui è difficile scegliere quale delle vite da lei vissute abbia lasciato più segni fertili (la mitologa dell’horror, la cronista del maggio francese e delle trame nere italiane, la felliniana, la satieana...), così come ammiriamo la limpidezza delle sue scelte di vita, la ribellione all’uccisione totalitaria dei Rosenberg, e così via. Con Ornella Volta I mille occhi sperano di proseguire un lungo percorso di dialoghi e collaborazioni. Piège, cui lei ha collaborato (distillandovi mitografie fantastiche), è un grande Baratier sessantottesco, dove accanto a una Bulle splendidamente fetish (la più che attrice Bulle trova tuttavia abbandoni giocosi e fisici, qui come in Maîtresse di Barbet Schroeder, persino in un Salce da recuperare) incontriamo Bernadette Lafont, altra icona nouvelle vague che con Bulle ha vissuto anche il destino parallelo di un trauma personale che ha sottratto alla vita le loro adorabili figlie-attrici, e la nostra Jackie Raynal in un ruolo d’attrice, nonché nella cornice (il Prologue circolare del titolo) un Arrabal affabulatore. Les Vamps fantastiques riassume, con qualche lacuna (per esempio Le baccanti di Ferroni), il fantastico al femminile, intervistando tra le altre la mitografa Volta. La serata è il momento inaugurale e centrale della rassegna stendhaliana: nella quale il rinvio al prossimo anno delle “cronache italiane” è inevitabilmente un arbitrio, ma necessario per le dimensioni che il programma ha preso, partendo “casualmente” dalla volontà di inserirsi negli omaggi a Pincherle, che l’altro grande stendhaliano Trompeo definì il “più appassionato degli stendhaliani”. Naturalmente vi furono altri grandi stendhaliani, in Italia (Foscolo Benedetto) e in Francia (da Martineau e Michel a Del Litto), così come grandi scrittori sono tornati su quest’opera (vedi il volume riassuntivo di Sciascia). Tra essi, Pincherle non ci interessa solo perché triestino, ma per la sua rivendicazione rosselliniana del dilettante, del “mestiere di uomo” applicato all’erudizione. Pediatra amato, politico integro (per usare un termine sankariano), lo stendhaliano Pincherle si pone in sintonia profonda con lo scrittore della passione (amorosa, politica, estetica) che fu Stendhal. Il quale forse non ha trovato nel cinema l’accanimento d’autore che sia Rivette che Rohmer dedicano a Balzac... o forse sì perché Autant-Lara va scoperto nella sua grandezza, come Aurenche e Bost, ed egli ha eletto in Stendhal il suo unico dio. Stendhal insegna che l’amore può passare attraverso l’odio, e la denigrazione truffautiana del cinema della qualità, così fertile criticamente, ha decisamente scelto dei bersagli sbagliati a cui sparare, se non si trattava di uno sparo alla Julien Sorel verso l’amata. Abbandonandoci, da dilettanti indegni di Pincherle, alla vaganza stendhaliana, abbiamo scoperto meraviglie tra i destini stendhaliani del cinema: basti pensare che due film fantastici capitali come Caligari di Wiene e Vampyr di Dreyer hanno matrici stendhaliane, questo nella visione del proprio funerale mutuata da San Francesco a Ripa, quello nel nome stesso Caligari che Carl Mayer (sceneggiatore anche di una Vanina) ha trovato nella corrispondenza stendhaliana. E inoltre, un altro grande stendhaliano, Michel Crouzet, segnala la matrice di Mina de Vanghel nell’Astrée di Honoré d’Urfé ora riscritto da Rohmer (dopo Zucca). Il film di durata anomala tratto dal racconto, ammirato da Bazin e da Breton, indica la matrice stendhaliana del surrealismo, e come direttore della fotografia vi troviamo il grande Schuftan che collaborerà con Rossellini e girerà i due capolavori finali di Rossen. L’accostamento con The Barefoot Contessa, film dalla matrice stendhaliana remota, ci permette di unire le recensioni richiamantisi a Stendhal di Bazin e del figlio ribelle Truffaut (le pubblichiamo in catalogo). Del bellissimo film di Mankiewicz
scriviamo passim (anche nel testo su Genina), ed è difficile aggiungere qualcosa di essenziale in poche parole, se non che la Cenerentola scalza Ava Gardner è, con la sua Pandoradi Lewin, tra le meraviglie del creato, degna dei miti mediterranei che incarna. La serata si conclude con la 1ère époque della versione di Lucien Leuwen di Autant-Lara, opera rara che siamo lieti di poter presentare nel master video dal 16mm originale.
Martedì 23 settembre.
In mattinata cercheremo di imparare qualcosa della grandezza di Audiberti, vedendo i pochi documenti audiovisivi della sua presenza (già l’avevamo visto in Le Désordre à vingt ans di Baratier), e dichiarazioni di persone che gli furono vicine e che lo amarono, tra cui Baratier è tra i più fedeli. Le testimonianze radiose di Sophie Matti e Françoise Vatel in Portrait d’Audiberti sono la più bella risposta alla richiesta di Audiberti, quella di smentire la morte, che egli rivolgeva alle presenze di donna; anche se, dice Claude Nougaro nello stesso ritratto televisivo, per lui “le donne erano una chiave che si bloccava nella serratura”. E altro si potrebbe aggiungere confrontando la riscrittura audibertiana di Jeanne d’Arc con quella dreyeriana. La frequentazione audibertiana è tra i meriti di Truffaut inventore di critica, così come dello scrittore va segnalata la fedeltà verso Beniamino Joppolo, il commediografo siciliano da lui reinventato in traduzione e incrociatosi con Rossellini e Godard. Mentre in sala video passa una versione televisiva britannico-australiana di Le Rouge et le Noir, in sala si ripropone una maratona di tre titoli cottafaviani, che si vorrebbe inaugurante rassegne più ampie sull’autore (ben proluse quest’anno da un numero monografico di «Bianco e Nero» e da un dossier di «Filmcritica», ai quali chi scrive rinvia anche per trovarvi i testi proiettanti su Cottafavi molta della propria passione per il cinema). Inutile perder tempo ormai a rievocare la stupidità che accolse a Venezia Fiamma che non si spegne, pari solo a quella della bocciatura di Lilith da parte di Chiarini. Ormai il dittico su paternità e maternità costituito da quel film con Nel gorgo del peccato è talmente oltre il livello medio, che pur amiamo (fino agli anni 70), del cinema italiano, da abbagliarci e commuoverci. Vedere subito dopo Maria Zef, il grande film di cui il Friuli non sostenne lo specchio, sarà quasi insostenibile anche per noi ma per il prolungarsi su tre titoli di una bellezza così radicale. La proiezione sarà per Siro Angeli, scrittore friulano da conoscere veramente, amico e collaboratore per decenni di Cottafavi.
La Ville Bidonè la seconda versione, unica oggi visibile, di un film di Baratier nato nel 68, La Décharge, che si pose subito oltre la sconfitta sociale. Con questa proiezione s’interromperà la nostra scoperta di Baratier, iniziata l’anno scorso su proposta geniale di Jackie Raynal e che nel prossimo anno vorrebbe riuscire a ritrovare i film che ancora ci sfuggono (Le Métier du danseur, L’Or du duc, L’Araignée du satin), insieme a tutti i “documentari” antropologici da lui realizzati, di cui è dopotutto una variante Le Désordre à vingt ans, film di cui già quest’anno, se avremo fortuna, potremo presentare l’ultimissimo rimontaggio del regista. A letto ma solo dopo la 2ème époque di Lucien Leuwen.
Mercoledì 24 settembre.
In sala video due versioni di Le Rouge et le Noir, quella sperimental-televisiva (ma Pierre Cardinal non è déraciné come il Cottafavi televisivo), con belle Micheline Presle e Marie Laforet, e quella di Autant-Lara con Gérard Philipe (di cui c’è un omaggio trasversale nel nostro programma), Danielle Darrieux e Antonella Lualdi. Di questo bellissimo film contiamo di rintracciare il prossimo anno la copia 35mm, all’interno di un primo segmento dedicato a Autant-Lara che ameremmo coniugare con la “genialità del cattolicesimo” di Leo McCarey. La visione di quest’anno è quindi solo il segno di un desiderio: non potevamo omettere, almeno in video, la versione cinematografica forse più interessante di un romanzo di Stendhal. Della quale si segnala il retroscena, su cui Autant-Lara molto insistette, di Bazin colpevole dei tagli della produzione. Quindi andiamo in sala a vedere The Cool World di Shirley Clarke, prima opera cinematografica (come produttore) di Frederick Wiseman (e perciò si segnalerà la rassegna di novembre cui I mille occhi sono lieti di partecipare, inserita negli omaggi a Basaglia), tratta – ragione prima della sua programmazione – da un’opera teatrale di Rossen, a conferma di come il nostro regista fosse, nella fase conclusiva, oltre Hollywood. Per la rassegna di John Gianvito che s’inaugura col programma di cortometraggi suoi e di registi contigui, da lui scelti, rinviamo ai testi in catalogo di Olaf Möller, che l’ha curata da quel critico tra i più liberi e perspicaci che oggi è (per cui siamo fieri di averlo nello splendido comitato artistico del festival), e di Jurij Meden, che per primo ce la propose e ne scrive anche sulla sua bellissima rivista «Kino!», nonché di Federico Rossin. A noi basterà aggiungere che la diversità tra i film del regista, indicata da Möller, ben si accompagna a quella dentro il cinema di Dreyer (“trovare uno stile per ogni film”), e che l’ambientazione psichiatrica del magnifico What Nobody Saw ben prolunga il Shirley Clarke visto poco prima. Abbiamo dovuto rinviare un omaggio diretto a Matjaž Klopčič, ma ne realizziamo almeno uno indiretto. Monsieur Ripois di Clément, che Audiberti indica come prologo a Le Rouge et le Noir di Autant-Lara, ci evoca nel finale quello di Le Plaisir di Ophuls, e il ritorno a entrambi nel finale di Ljubljana je ljubljena, l’ultimo film di Klopčič, che presentammo due anni fa e che ci appassiona sempre più come opera libera dalle tirannie della storia politica. Senza dimenticare la brillantezza di questo Clément anglo-francese (fuori da un tempo che porterà alla swinging London), rievocheremo attraverso esso l’amore-odio per la Slovenia in Klopčič (e ciò che lo dirige verso l’amore sono le figure di donna). Osserviamo anche, visto l’accostamento con il film di Ophuls, che Maupassant appare nel cinema, come forse nella letteratura, uno specchio frammentato del romanzesco stendhaliano. Lumumba, ecologia di un delitto, abbiamo voluto intitolare la rassegna in progress africana, purtroppo quest’anno solo una traccia, data l’impossibilità di realizzare la personale di un regista di talento, il congolese Balufu Bakupa-Kanyinda, che ben avrebbe collegato le figure politiche di Lumumba e di Sankara. Ovviamente il titolo riprende quello di Bava, che già come titolo è affascinante, e che Luc Moullet aveva acutamente avvicinato in una carte blanche a Maria Zef di Cottafavi: insomma si sarà notato che certe nostre titolazioni sono degli slittamenti nel programma (De l’Amour migrato da Stendhal a Cottafavi, che da editore pubblicò quel trattato). Ed è uno slittamento che questo bizzarro film di Bennati, contenente rare immagini del momento successivo all’uccisione di Lumumba, con Kasavubu e il Mobutu poi propagandato da un film incontrollatamente propagandistico di Roger Kwami Mambu Zinga (di cui Marina Mottin ha ritrovato i materiali che il prossimo anno includeremo in una personale), abbia la presenza della a noi molto cara, lilithiana Jean Seberg, in seguito anche militante del Potere Nero. Dell’attrice avremmo volentieri proiettato anche Les Hautes solitudes di Garrel, che la unisce a Nico e alla Tina Aumont da noi ricordata l’anno scorso. A fine serata la 3ème époque di Lucien Leuwen.
Giovedì 25 settembre.
La visione informativa in video della versione americana di Mambo di Rossen (mentre a Torino si proietterà quella italiana) ci spinge qui a un flashback/flashforward sul percorso registico di Rossen, che appunto a Torino si conoscerà integralmente. Nata nel momento critico dell’emersione del blacklisting, l’opera di Rossen incrocia altre figure, da Dmytryk a (via Garfield) Kazan e Abraham Polonsky, sceneggiatore di Body and Soul, film che dialoga a distanza coi dittici pugilistici di Robson e Wise, come The Brave Bulls si confronta col trittico tauromachico di Boetticher (e, se vogliamo, con l’incompiuto Cottafavi sulla corrida). Facile dar ragione a una catalogazione less than meets the eye per Rossen, sancita da Andrew Sarris e sostanzialmente avvalorata dai «Cahiers du cinéma» prima della folgorazione Lilith. Facile osservare che Kazan, Polonsky, il sublime Boetticher di Bullfighter and the Lady, talvolta anche Wise (solo Robson è innegabilmente amabile per la sua vulnerabilità) sono, come già si disse per Walsh, più “trasparenti”. E che i film sulla politica di Ford sono più folgoranti di All the King’s Men (che John Wayne, produttore del grande film messicano di Boetticher, detestò con tutte le sue forze); mentre naturalmente Aldrich, Fuller e Losey vincono sul versante turgidamente malato, Preminger nell’orchestrazione. Allora, Rossen condannato a un destino minore? Ci sembra che nell’opera registica di Rossen vada eletto quel percorso per folgorazioni che esplode nei due capolavori finali che, per quanto consapevoli della superiorità di Ford o Walsh o Dwan, non rinunceremmo per nessun altro film in cambio a porre tra i massimi film per noi indispensabili. In questo percorso per folgorazioni l’incontro tra le due donne nel film d’esordio Johnny O’Clock, film peraltro tutto bello come un orologio macchina celibe, quando esse s’incontrano nel prefinale, l’una allontanandosi, l’altra raggiungendo lo stesso uomo amato rimasto ucciso, scambiandosi uno sguardo da estranee inconsapevoli di ciò che le unisce, è un segno indimenticabile. Come lo è la leggerezza di Lilli Palmer in Body and Soul, la fatalità di All the King’s Men, l’universo di fragilità e di violenza arbitraria di The Brave Bulls, in cui la corrida (detestata da Rossen, all’inverso di Boetticher) è la stazione finale dei sacrifici insostenibili delle due splendide presenze femminili, la ceca ebrea ed apolide messicana Miroslava [Stern] (bella quanto nel film di Buñuel che interpretò) e la latina Charlita. L’epoca apolide di Rossen lo fa spostare dal Messico all’Italia, per questo Mambo che naturalmente è prima di tutto una splendida bizzarria del cinema italiano, un documentario su Silvana Mangano attratta e insieme distante dalla vocazione allo spettacolo, un film veneto cosceneggiato da Piovene, un film di culto con le canzoni di Bernardo Noreiga, le musiche di Rota e Lavagnino, le coreografie di Katherine Dunham. Un film che vive della spregiudicatezza del cinema italiano, rappresentata da Ponti e De Laurentiis, al punto da poter essere con difficoltà ricondotto a un autore-regista. Eppure, se non ci inganniamo, c’è un cammeo (da confermare) di Rossen, nella parte del collega di Gassman al Casinò che lo informa sull’emofilia di Rennie. C’è un senso della fatalità forse immesso anche da Piovene e Perilli ma certo congeniale a Rossen. La cosa curiosa è che, se la versione italiana è più lunga e completa (nell’americana manca tra l’altro il numero musicale più delirante e politicamente scorretto, con la “negra” Silvana Mangano), la vera versione originale, con le voci di Silvana, Gassman, Rennie e Shelley Winters, è proprio quella “internazionale” americana, essendo essi doppiati in quella italiana da Lydia Simoneschi, Emilio Cigoli, Giulio Panicali, Dhia Cristiani (e il presunto Rossen da Carletto Romano). Nei successivi tre film la regia di Rossen (seppur con sceneggiature d’autore in almeno due casi e autoproduzione in uno) sembra perdere il controllo di una macchina superspettacolare (quella che indebolirà un po’ anche Ray e Mann nell’universo Bronston, e solo Mankiewicz saprà rendere il ratage di Cleopatra geniale, pur non credendo in trasparenze hawksiane o walshiane). Le vulnerabilità di Claire Bloom e Danielle Darrieux in Alexander the Great, di Dorothy Dandridge, Joan Fontaine e Patricia Owens in Island in the Sun (il più riuscito dei tre film) conduce al teorema sul traditore di They Came to Cordura, dove Gary Cooper è meno flagrante che altrove, e la vulnerabilità di Rita Hayworth è troppo marcata dal ruolo del tradimento. Ma da lì nascerà il folgorante Rossen della fase finale. Address Unknown vede la supervisione di Gianvito su un film “a programma” diretto in più episodi con altri registi. In contemporanea in sala video il Senso di Visconti (dove, pur ammirando Alida Valli, lo si può ritenere essenziale solo per Marcella Mariani), che ben si unisce a Prima della rivoluzione di Bertolucci come variazione a partire da Stendhal. Ma il programma della giornata offre molteplici alternative: l’iniziativa Cinema con i giovani al cinema Ariston, realizzata con convinzione e spirito innovatore da Mila Lazić, e il primo tassello dell’omaggio a Landolfi in sala video. Prepariamoci a una serata memorabile. Unire, dall’opera di Straub successiva alla morte di Danièle Huillet, il suo bellissimo Il ginocchio di Artemide a The Hustler è, ci sembra, compiere un gesto verso il cinema che ci auguriamo di forte intensità. Al ginocchio di Claire rohmeriano (prolungantesi in altre Cambrure), alla sensualità non feticizzata dei corpi di Jean-Marie e Danièle in Geschichtsunterricht, uniamo ora l’incedere claudicante di Piper Laurie nella finzione (ma fortemente vissuta) di The Hustler, scoprendo quella curva delle ginocchia modellata da una gonna e scoperta sopra la caviglia nella foto di scena, che abbiamo eletto a immagine del festival, da un film di quattro anni prima, Until They Sail di Robert Wise, in cui lei già incontra Paul Newman e vi interpreta il ruolo di una malinconica ninfomane uccisa per gelosia dal marito: con un ritrovamento del cadavere a gamba scoperta che c’inquieta possa essere di una controfigura. Film che avremmo sicuramente cercato di proiettare, se l’avessimo scoperto prima. Ci può bastare comunque la splendida foto di scena, degna tappa nelle immagini che in questi anni abbiamo eletto, nessuna omologata a un codice o a un dominio figurativo ma tutte appartenenti a quel corpo con quel nome: Jean e Lydou Vigo, Leni Riefenstahl, Jean Seberg, Amparo Matiz, Dawn Addams, Belinda Lee, ora Piper Laurie, il prossimo anno forse Sylvia Lopez. La proiezione di The Hustler è anche per Anatole Dauman, che lo distribuì in Francia e che poi amerà anche Lilith (tra i suoi, come di Vecchiali, migliori film dell’anno nei «Cahiers»). Vogliamo anche ricordare la bella recensione su The Hustler di Claude Ollier, prima tappa di un’attenzione critica alta in Francia. Il film è tra le massime punte di un discorso antisacrificale, forse per metafora anche il più bel film sulla Shoah col coevo Pasaz·erka di Munk. Un film che, senza ridursi al dominio del terreno morale, rifiuta l’accettabilità del delitto. L’ultima immagine che Piper Laurie vede nel film è quella dello specchio su cui scrive parole non di suicidio ma di impossibile fuga da una sentenza di morte impostale, di beffarda sottolineatura del proprio handicap. E lì una di quelle cesure di morte con cui Rossen rifiuta ogni inganno. Poco dopo questo ruolo così intensamente vissuto Piper Laurie si ritirerà a vita privata, lascerà il cinema, cui tornerà molti anni dopo nel ruolo della madre oppressiva di Carrie di De Palma (regista che singolarmente s’incrociò con Rossen anche per la scelta della figlia Carol Eve Rossen, che già interpretò The Arrangement di Kazan, a attrice di The Fury, mentre l’altra figlia Ellen compare solo nel paterno Alexander the Great). Ricordo ancora che un giorno di tanti anni fa il caro Marco Melani mi parlò di aver visto Lo spaccone la notte prima in televisione, meravigliandosi della bellezza di quel film. Anche in televisione passa la bellezza di quel biancoenero scope, e forse nemmeno gli spot possono annullare il senso del tempo sospeso nel film. Che, pur essendo diventato nei decenni quasi un classico americano (mal sottolineato dal sequel scorsesiano), è tuttora un film non percepito nella sua massima grandezza. Una grandezza unita alla bellezza: della luce, degli interni con quella parentesi in un esterno di paesaggio dal suono reale, della musica di Kenyon Hopkins (che tornerà nel film successivo come Shuftan, mentre il montaggio non codificato di Dede Allen si accentuerà nell’ultimo film nella libertà di quello di Aram Avakian). Ci resta ancora la 4ème époque di Lucien Leuwen.
Venerdì 26 settembre.
In sala video tre variazioni stendhaliane, quella notevole di Clair, quella francamente fastidiosa di Vadim (che ahimè anche indebolendo La Ronde si diverte a citare De l’Amour, ma se in Le Désordre à vingt ans si rivela piacevole affabulatore, se come talent-scout di presenze femminili, da BB a Sirpa Lane, è impagabile, come regista è francamente irrilevante), e quella del Visconti che è il terzo film con Claudia Cardinale nel nostro programma (Goha, Il bell’Antonio, Il Gattopardo). In sala reincontriamo il gruppo di registi italiani Malastrada, che hanno avuto il merito e la tenacia di realizzare un film per Thomas Sankara. Un film giustamente presente a più festival perché produttivamente possibile proprio attraverso il sostegno dei festival, che I mille occhi vogliono confermargli anche per il futuro. Il programma che unisce il film di Gianvito con Tom Conser e il film dello scomparso Conser, è di particolare intensità, e la citazione di Artaud nel primo gli è appropriata. In serata due titoli in cui ci è piaciuto trovare l’eco di nomi femminili (The Mad Songs of Fernanda Hussein, The Strange Love of Martha Ivers). Il film più lungo di Gianvito è griffithiano, non a caso il secondo capitolo vi si intitola Orphans of the Storm, come il primo sceglie a esergo Pavese. Mentre scriviamo non sappiamo ancora come finirà con le presidenziali americane, né abbiamo chiesto a Gianvito cosa ne pensa (lo potremo fare al festival), ma intanto percepiamo in questo film d’opposizione un gesto politico rispetto a cui la politica sembra ancora molto indietro. Un film così dunque in America esiste, in Italia non vi vediamo qualcosa di analogo. Il nostro Premio Anno uno, giunto alla quinta edizione, dopo aver premiato Kira Muratova, Mircea Daneliuc, Werner Schroeter (che ora anche Venezia ha saputo onorare) e Paulo Rocha, decide che si può essere maestri a tutte le età. La scelta continueremo a farla senza imporci regole vincolanti, l’unica certezza è nella convinzione di proporre cineasti fertili (come lo è anche Vittorio De Seta, quasi un Premio Anno uno implicitamente assegnato). Il noir sceneggiato da Rossen, ultima sua sceneggiatura preregistica importante, è davvero una punta della sua opera. Ne dedichiamo la proiezione a Lizabeth Scott, vivente, perché questa attrice di origine slovacche, dal volto sensuale che qualcuno volle eleggere a icona lesbica, ci appare una delle donne vulnerabili più appassionanti del cinema di Rossen (apparirà anche nella successiva collaborazione di Rossen, Desert Fury, a colori, mentre questo film appartiene ai suoi molteplici noir bianchieneri, tra cui Dead Reckoning di Cromwell affascinantemente titolato in Italia Solo chi cade può risorgere, dalla sensualità espansa, dove si parla della sua husky voice e del suo odore di gelsomino, e poi nel doppio ruolo di Stolen Face del da noi molto amato Terence Fisher). Nel film di Milestone si esalta l’esoterismo biblico che Rossen compirà in Lilith: le due Bibbie d’albergo come libri dell’incontro d’amore (mentre l’altra vamp, Barbara Stanwyck, dice a Heflin “you know your Bible” per dire che sa il fatto suo, ma è anche una parodia). Infine, il ripetuto “Sam’s wife”, da parte di entrambi i coniugi nel matrimonio finale, prolunga i riti nuziali rosseniani (Dust Be My Destiny, Lilith) col desiderio che il rito diventi carne.
Sabato 27 settembre.
La mattina secondo appuntamento landolfiano: per questo segmento del programma, in cui molto abbiamo creduto, rinviamo al testo nel corpo del catalogo. Gli amici che altrove citiamo ci hanno aiutato in modo essenziale a realizzare questo doppio omaggio a Tommaso Landolfi e Idolina Landolfi. La prima versione proiettabile di Le Rouge et le Noir, di Righelli: altre ancora, del testo stendhaliano più filmato, speriamo di reperirle per il prossimo anno, anteriori (Bonnard) e successive (Righelli sonoro, Gerasimov). Chi vuole può proseguire in sala video con la più lunga versione di La Certosa di Parma, con Marthe Keller, purtroppo rubata a Autant-Lara che sperò di compiere il trittico stendhaliano. Comencini la rifiutò, toccò a Bolognini, specialista in film progettati da altri (La vera storia della signora delle camelie doveva essere la terza versione cottafaviana del personaggio). In sala Altromondo, mediometraggio della triestina Katja Colja, di cui ci ha conquistato il segmento dell’Accademia della follia, dove nella coppia Claudio Misculin & Valentina Sussi avviene qualcosa di quella minaccia nichilistica all’amore che ben si lega al film al centro della giornata, quello di Rossen. Ultimo programma di John Gianvito, col suo ultimo, splendido Profit motive and the whispering wind, viaggio attraverso l’America dei sacrificati, tra cui il Griffith di cui tra qualche giorno vedremo alle Giornate del cinema muto di Pordenone gli ultimi film, forse i suoi più belli, e in particolare l’ultimo, The Struggle, film radicale se ve n’è uno.
Lilith Night: cosa ne nascerà? La donna sacrificata all’uscita della storia dal mito può ancora incarnarsi? Nel capolavoro di Straub (cosceneggiato e coprodotto da Huillet), interpretato da Fassbinder, Lilith Ungerer diventa Marie in teatro. Sul film di Rossen, il film che ci è più caro se ve n’è uno (e ci riferiamo a tutto il cinema), ci è difficile aggiungere in breve qualcosa rispetto a quanto reperibile nel catalogo 2004 del festival dove il film fu già proiettato (testi di chi scrive, di Jean-André Fieschi e di Jean Seberg, tra cui un inedito, con molte foto). Parliamo allora di questa Lilith (Diane, forse) che ha scelto di chiamarsi così come attrice di hard, che ha realizzato con Axelle un film di leggibile coinvolgimento personale, e che pare abbia deciso di ritirarsi dal cinema. Mentre scriviamo questo diario di visioni future, ancora speriamo che la notte del 27 settembre lei si incarni sotto lo schermo, e che dia un senso vero a quanto è avvenuto durante il festival. Gloria Morano, nella nota in catalogo, ipotizza sensatamente che questa Lilith abbia attraversato il cinema col desiderio di un’esperienza personale, poi realizzatosi al di fuori del cinema. Forse non ha mai visto Ordet, Gertrud, Vredens dag, forse nemmeno il Lilith di Rossen, che stasera alfine vedrebbe. Al momento possiamo solo aggiungere che il rapporto tra mimesi e esperienza nella sua interpretazione è toccante (la scena dello sverginamento, pur recitata, è di una flagranza assoluta); subito dopo il film (che all’inizio contiene un brevissimo cammeo di Ovidie) la vediamo in una luminosa videointervista di Didier Noisy, autore anche del Making del precedente film di Martin Cognito, protagonista Ovidie, con lei in un piccolo ruolo: nell’intervista è già a volto spogliato della feticizzazione lesbica del film, con altra pettinatura, difficile decidere dove sia più bella e vera, qui si fa vedere però il suo sorriso luminoso, forse la cosa più irrinunciabile di un volto femminile; e poi nel Making dice giocosamente che, nel ruolo di una delle due Dalmatiennes/Dalmachiennes, è davvero diventata un cane. Forse è anche davvero diventata Lilith. (“Hai visto? sono diventata Lilith” ci raccontò Fieschi che gli disse Jean Seberg incontrata per l’ultima volta, molti anni dopo il film di Rossen). Il possibile momento di verità è già passato. A mezzanotte si potrà scegliere la festa al bar, vedendo con la coda dell’occhio sui monitor il concerto Lilith Fair, oppure di restare in sala a guardare il Lilith di Ovidie, un po’ routinier come si addice a un hard in cui non s’imponga una flagranza. Domattina ci si sveglierà un po’ tristi, se qualcosa non sarà nato nel frattempo.
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