Introduzione
Per farla finita con la storia del
cinema
di Sergio Grmek Germani
Quelque estendue d'esprit que l'on ayt l'on n'est
captable que
d'une grande passion.
(Blaise Pascal [?], Discours sur les passions de
l'amour)
Per quanto vasta sia
un'anima, di grandi passioni non ne può
contenere che una.
(tr. Luigi Foscolo
Benedetto, in Il "Discorso" di B. Pascal "sulle
amorose passioni",
Campitelli, Foligno 1923)
Son mille le vite
son mille le morti
che sento dentro me.
(Olga Karlatos nel
canto italiano in La tortura,
versione italiana di Gloria
mundi di Papatakis)
Mit allen Augen sieht
die Kreatur
das Offene.
(Rainer Maria Rilke,
Duineser Elegien,
VIII)
Con tutti gli occhi la
creatura vede
l'aperto.
(tr. Franco Rella, in
Elegie duinesi, BUR,
Milano 1994)
Abbiamo
concluso il festival 2008 con Lilith, la donna prima di Eva. Ora
ripartiamo da Eva, progetto fondante e irrealizzato di un film (Adam
and Eve) di Leo McCarey,
perfettamente adombrato in My Favorite Wife,
che McCarey, essendo uno tra i massimi cineasti, non ha avuto nemmeno
bisogno di dirigere personalmente per renderlo suo.
Ma chiariamo
subito: si occupano di cinema I mille occhi? Se il cinema è il
rivelatore della vita, forse sì.
Il
fatto che non ci priviamo della pluralità (di presenze e di
realizzazioni) che il cinema implica, non è per pura golosità,
o peggio per incapacità di scegliere. È
proprio perché questa pluralità (mille occhi, cioè
appunto mille vite e mille morti) è quintessenziale al cinema,
irrinunciabile per esso. Anche l'umanità è troppo poco
per il cinema. E se il cinema fa proprio il disegno di un Dio, non
può farlo perdendo la vita accidentale di nessun essere. È
quanto c'insegna Dreyer, regista che ci è fonte di massimo
orientamento insieme a Rossellini, senza che ciò ci porti a
privarci di Giorgio Bianchi o Nando Cicero o Joe D'Amato, nei quali
non temiamo di scoprire una contiguità reale con le punte del
cinema. Così come nelle presenze dentro il cinema, nella loro
bellezza non sacrificabile, scopriamo il vero destino di quest'arte,
la sua missione Ordet. Le indimenticabili Jean Seberg, Dawn Addams,
Belinda Lee, Piper Laurie, Sylvia Lopez, che segnano col loro fermo
immagine le edizioni del nostro festival, sono per noi non (secondo
termini abusati e vuoti) "icone", se non nel vero coniugarsi
dello splendore dell'icona sacra con una presenza reale. Chi scrive
non ha difficoltà a concedere che quei nomi-corpi hanno
segnato il suo vissuto da spettatore, che l'intrecciarsi tra storie
della finzione e sacrificio reale nelle loro presenze costituisce la
sfida di fronte a cui vediamo porcisi il cinema. Per dire della
presenza di quest'anno, il sacrificio della sua regina di Lidia ci
agitò per parecchie notti (ma solo oggi scopriamo che Sylvia
Lopez, nata Tatjana Bernt, è, al di là del nome da
sposata, austriaca con componenti slave). Nessun dubbio che, se
questa serie di immagini proseguirà, le prossime icone
potranno essere, in un ordine da precisare, Martine Carol e Danièle
Gaubert, già presenti nel programma di quest'anno, e Marta
Toren, Eleonora Rossi Drago, Nadia Gray, Natalie Wood e Tina Aumont,
a cui già ci eravamo avvicinati, e Gianna Maria Canale, che è
tra le presenze di cui quest'anno si è svuotato un mondo
capace di sopportare anche la perdita della bellezza di Marilyn
Chambers, Trine Michelsen, Renata Mauro, Eartha Kitt, Bettie Page.
Terribile questo 2009 in cui anche cineasti che prima o poi avremmo
desiderato ospiti del festival hanno abbandonato il cinema: i grandi
Xie Jin, Kostas Sfikas, Gerard Damiano, Robert Mulligan. E ci hanno
lasciato amici che sono stati al festival: Jean-André Fieschi,
Gianni Alberto Vitrotti, Nika Bohinc.
Scrivendo
questo, non riesco a dimenticare come Alberto Farassino fosse stato
tra i pochi a capirmi, lui apparentemente più freddo di altri
critici cinefili, in questa tensione tra registro e ribellione (sono
parole mie, non sue).
Ben
sappiamo che mille occhi si nascondono, pronti a vedere con noi, e
che da un momento all'altro appariranno.
Il
festival di quest'anno appare propizio a questa apparizione.
A
Leo Castelli ci affidiamo come a quel rabdomante che è stato.
Vedeva la bellezza e "subito" altri vedevano con lui.
Al
da lui rivelato Warhol ci affidiamo come all'artista dell'evidenza
(non certo dell'apparenza, signora della contemporaneità),
colui che firmando delle presenze poteva renderle imitazioni del
Cristo.
In
un programma che non rinuncia alla pluralità (giù giù
a venerare, e non è un atteggiamento ma una fede, Sirpa Lane e
Lisbeth Hummel, nella sua volontà di diventare "davvero"
attrice la prima sentendosi invece oggetto di desiderio in un corpo
esplosivo poi minato dall'Aids, nella sua riconciliata migrazione da
attrice a pittrice sopravvissuta la seconda non meno e diversamente
sconvolgente: giacchè il cinema è fatto per
sconvolgere), in un festival che non si vergognerebbe, come fa il
massimo festival italiano, a ospitare Paris Hilton e Patrizia
D'Addario, insomma a I mille occhi, il programma di quest'anno si sa
e si vuole segnato da alcuni tra gli arcani maggiori del cinema.
Tra
i tanti film, di cui nessuno programmato senza convinzione, fanno
perno due titoli che non temiamo di dichiarare non solo tra i massimi
capolavori del cinema (al di là della storia, contro la
condanna a rendersi passato, retrospettiva, necrologia) ma
addirittura tra i momenti più alti del pensiero del XX secolo.
Sì, c'è Heidegger che rivela Hölderlin e Rilke, ma
ci sono anche Dreyer e McCarey.
Leo
McCarey, il genio comico che ha saputo inventare la coppia assoluta
(Laurel e Hardy), è anche l'Eschilo dell'America, come sarà
ancora più evidente quando il prossimo anno programmeremo My
Son John,
sublime tragedia americana. Il suo The
Bells of St. Mary's è
la punta in una filmografia di capolavori, nei quali ogni
inquadratura è quella giusta. Il regista forse più
unanimemente ammirato dai massimi registi (Ford, Ozu, Renoir,
Hitchcock, Cukor, Hawks, Lubitsch, Capra, Browning, Resnais), i quali
lui a sua volta ammirava (ma sopra tutti Chaplin), il regista che nel
cinema americano costituisce con Ford, Walsh, Dwan e King la massima
perfezione, ci dà con Bells
il
film in cui, come in Ozu, il tempo si sospende oltre la biforcazione
vita-morte. Un film in cui si realizza come possibilità quella
presenza di cui Dreyer allontana il sacrificio, in cui tra anime e
corpi, sempre tese a dividersi in Rossellini (salvo forse nel sublime
finale di Blaise
Pascal),
s'interpone il cinema. Irlandese cattolico, attratto da missioni come
quella dei Christophers, regista preferito da papa Pio XII per Going
My Way,
McCarey riesce a parlarci oltre le confessioni: ciò che Dreyer
perseguiva, credere nella resurrezione senza affidarsi ad alcuna
confessione religiosa, diventa per McCarey il respiro del cinema. La
"genialità del cristianesimo" assunta da Rohmer può
qui coniugarsi anche con la leggerezza di far propria l'istituzione
cattolica.
Dobbiamo
parlare di grazia per la capacità che ha la commedia mondana
di My Favorite
Wife di
parlarci insieme di un nuovo paradiso terrestre (Adam
and Eve Resurrected?)
e di concedersi nel finale una transustanziazione del Natale più
eretica che nel più blasfemo dei film? Senza dimenticare la
capacità del cinema di McCarey di contenere presenze reali: in
Bells Ingrid
Bergman monaca canta nella matericità della sua lingua
svedese, superando i confini della finzione, che è appunto
quanto McCarey, prima di Rossellini, è capace di fare. Nei
film precedenti la risata sensuale dell'irlandese Irene Dunne va
oltre gli scatenamenti screwball.
E tra le vecchie suore di Bells,
non remote dai frati di Francesco
giullare di Dio,
vi è anche la Eva Novak che fu protagonista del primo, perduto
film del regista, Society
Secrets,
rivelazione di un segreto invisibile cui rendiamo omaggio titolandovi
la rassegna. E si diceva delle affinità elettive: Ford che si
offriva di firmare un film diretto da McCarey, Ozu che ne faceva un
remake, Hitchcock che McCarey voleva protagonista di un suo film e
che concesse i raccordi mancanti per My
Son John (sul
quale non ci dilunghiamo quest'anno: il modo in cui elude la morte di
Walker lo rende film capitale tra i capitali)... e poi i chiosatori:
Stevens già operatore dei suoi corti comici muti, Capra che
nel suo capolavoro It's
a Wonderful Life rende
soggettiva di Stewart risorto l'insegna del cinema che proietta The
Bells of St. Mary's (con
sotto il titolo «with Second Great Feature», implicita
autocandidatura).
L'altro
arcano maggiore del programma è Vampyr
di
Dreyer. (Su cui va precisato che, programmandone la versione francese
divenuta rara dopo il restauro di quella tedesca prima sconosciuta,
al di là dei sottotitoli serbi e del richiamo a Andra Glišić,
ci si vuole un po' far beffe di come si gestiscono superficialmente
le vicende del cinema, al punto di veder uscire lussuose e premiate
edizioni in dvd a più dischi incapaci di mettere insieme due
versioni dello stesso film attorno ai 70 minuti, quando solo le due
versioni fatte vivere insieme non tradiscono l'ansia oltre gli
sdoppiamenti che c'è nel film: anche se il film è
soprattutto tedesco, esplicitamente pre- e antinazista, solo nel
sottotitolo della versione francese si esplicita il nome ebreo del
protagonista, che la stampa d'epoca non mancò di rilevare:
«David dunque ebreo», mentre nella versione tedesca è
Allan Gray). Vampyr
è
il film che rovescia tutti i nichilismi: disseminato di segni di
morte per negare le messe a morte (come il «qui non ci sono né
bambini né cani», detto dal medico che semina morte e
che, come in A
Corner in Wheat di
Griffith, finisce messo a morte nella farina del mulino, riuscendo a
farci udire tra i suoi rantoli solo un ripetuto «nessuno»
che è insieme lamento e persistenza a negare [e quel dittico
farinoso dreyer-griffithiano, già opportunamente fatto proprio
da Straub-Huillet, si unisce nella memoria a altri luoghi di violenza
nichilistico-produttiva sulla natura, il rovesciamento grano-morte di
L'assedio
dell'Alcazar di
Genina, o all'opposto il pindarico Vendemmiaire
di
Feuillade]; come l'«à ouvrir après ma mort»
scritto dal padre; come il «Tout est poussière et tout
retournera à la poussière»» sulla parete e
sulla bara che vuole segnare il destino di David, condannandolo a
quella soggettiva del proprio funerale che pare ispirata a San
Francesco a Ripa di
Stendhal). Ma tra questi segni di morte s'intrude l'aperto della
liberazione. L'inquadratura in cui si slacciano i polsi legati di
Rena Mandel è davvero un'icona assoluta (provai però a
eleggerla immagine per manifesto: impossibile! sembravano polsi che
venivano allacciati; quel luogo del film, seppur breve, richiede il
movimento del cinema per intendersi una liberazione e non il suo
contrario). L'agonia della carissima Sybille Schmitz è salvata
dall'avvelenamento in extremis, come in una soterologia griffithiana.
E il servo si mette a leggere il libro che David non sa continuare a
leggere, il servo lo porta a interrompere l'incantesimo della morte,
a far giustizia di chi produce morte. Se proprio vogliamo parlare di
storia del cinema, allora diciamo che tra La
Passion de Jeanne d'Arc e
Vampyr,
tra il sacrificio come ingiustizia non negabile del primo e l'andar
oltre la follia (di Artaud e di Dreyer) del secondo, vi è la
vera controstoria del XX secolo, quella in cui nessuna rivoluzione è
riuscita a vincere. Vedendo Once
Upon a Honeymoon di
McCarey nel suo rapporto con la storia (della Shoah, perciò
pensavamo di programmarlo con Pasażerka
di
Munk ma poi abbiamo fatto un salto mortale ulteriore coniugandovi il
Cottafavi su Eichmann [le Giornate del cinema muto che ci seguono di
pochi giorni riveleranno, con Die
Gezeichneten,
programmato insieme a Du
skal ære din hustru,
che quel motivo è al centro dell'opera dreyeriana, inclusi
Vredens dag e
il progetto Jesus])
si ha una percezione di flagranza ulteriore rispetto ai geniali
teoremi di Lang o di Lubitsch.
Quale
fortuna maggiore poteva dunque capitare al nostro festival che di
trovare per il suo Premio Anno uno un film, Cançao
de Baal,
che nella generale indifferenza delle manifestazioni cinematografiche
riparte da quel capolavoro di Dreyer? Un film del 1932 e un altro del
2009 uniti oltre il pensiero totalitario dell'attualità
(magari fosse l'attualismo di Gentile!). Uniti anche dal cogliere nel
cinema l'arte della presenza.
«Présence
du cinéma», come sapeva la più lungimirante delle
riviste di cinema, significa innanzitutto la presenza che è
nel cinema, cinema come art
ignorè della
presenza.
Impossibile
occuparsi di cinema senza scheggiare i mille occhi che ciascuno di
noi ha di quella (com)presenza, nella realtà anfibia
dell'immagine, di ciascuno dei corpi che vi si è inciso. Tra
Renée Falconetti e Edy Williams ci può essere un
abisso, ma quell'abisso è appunto la ragion d'essere del
cinema.
Un
festival cinematografico è il luogo dell'imperfezione, che
(lottando anche contro la dittatura dell'economia) cerca di unire
presenze e di negare il sacrificio di esse.
Avremmo
voluto presenti, in occasione del Premio all'adorata Helena Ignez,
anche le attrici che lei ha riunito nel suo film. Dobbiamo rinviare
questo ulteriore appuntamento al futuro. Vogliamo però sin da
ora far sentire la presenza di Djin Sganzerla, non solo con quel film
materno che la contiene in tutta la sua realtà, ma anche
evocando ciò che disse dall'ultimo set paterno, quell'O
Signo do Caos che
presentammo alcuni anni fa con un azzardo anticipatore. «Non
sembrava neppure che si stesse facendo un film» disse Djin di
quel set. Quando il cinema è grande, infatti, non sembra mai
che si stia facendo un film.
Ribadiamo
quanto nella motivazione del premio: siamo noi a ricevere un dono da
quel film. Di fronte alla dilagante pomposità dei festival che
fanno cadere dall'alto sugli autori e i film la loro "scelta",
noi vorremmo sottrarci a questa pratica immorale e insensata. Non
perché non riteniamo di avere idee e punti di vista ma proprio
perché li abbiamo, e tra essi vi è quella ricerca di
qualcosa che ci arrivi dalla realtà (del cinema) che è
la lezione rosselliniana del cinema stesso. E per fare un balzo
udigrudi
evochiamo
ciò che Julio Bressane non cessa di dire: se sapessi perché
ho fatto un film, ci sarebbe ragione a farlo?
C'era
qualcosa che univa la Belair e Bressane con Nico Papatakis, prima di
questo festival? In ogni caso ora c'è, con le due splendide
variazioni su Les
Bonnes di
Genet da proiettare insieme. Al punto da prenderci sin troppo gusto:
Federico Rossin in catalogo stende la traccia filmografica delle
sorelle Papin, che subito fa venir voglia di programmare il Samperi
per omaggiare Trine Michelsen (non meno di Florence Guérin:
questo coesistere nello stesso film di una viva e una morta negatesi
entrambe al cinema ha qualcosa di profondamente "papiniano", si
trattasse pure di un film non rivalutabile). Ma anche, attraverso la
versione con Susannah York (e Glenda Jackson) di ricordarsi che
Aldrich ha "papinizzato" in The
Killing of Sister George e
forse in altri film di doppi femminili; e che Chabrol ha
"genetizzato" da Les
Bonnes (sic)
femmes a
La Cérémonie.
Papatakis
c'interessa a priori tra i registi che hanno affidato l'intensità
del proprio rapporto col cinema a pochi film: la prima edizione di I
mille occhi partì da alcuni di quei registi (Vigo, Erice, Val
del Omar, Troisi, Damianos). Dei cinque capolavori di Papatakis solo
«Positif» ha saputo scrivere con la giusta continua
attenzione. Ma su Gloria
mundi,
il film a versioni plurime e pluriennali che abbiamo eletto a film
inaugurale del festival (un azzardo anch'esso, un atto di guerriglia
urbana), c'è stata un'attenzione ancora più isolata: di
quelle che non cessano di provarci che il vicino e il lontano sono
contigui. Del film iniziato nel 1974 il regista curò
un'edizione italiana nel 1977 il cui titolo esplicitante, La
tortura (così
nei titoli ma sui manifesti appariva la lezione senza articolo), va
oltre le furbizie sado della distribuzione. Che non gli giovarono, il
film rimase clandestino in Italia come altrove. Un uomo solo seppe
vederlo, e il paradosso è che lo vide nella stessa sala dove
ora lo riproiettiamo, il Miela allora ancora Cinema Aldebaran. Si
chiamava Alberto Farassino, lo recensì su «La
Repubblica» (vedi nel catalogo), e su Il
Patalogo uno,
avvio della troppo breve pata-impresa di Gianni Buttafava, indicò
appunto Tortura
come
il film più sottovalutato dell'anno. Intuizione meravigliosa
perché oggi Gloria
mundi ci
appare tra i film più sottovalutati degli ultimi trent'anni. E
quella versione italiana, che proiettiamo in terza serata (dopo un
Fulci che già sottolinea l'orrore sul corpo della sublime Olga
Karlatos), è una rivelazione ulteriore: in quella tensione,
che Gloria mundi
mette
in scena, tra presenza di un corpo femminile e assenza-presenza dello
sguardo mettinscena, la versione italiana rappresenta uno spostamento
verso l'impossessarsi dell'immagine da parte di quel corpo, con la
Karlatos che si doppia con la sua voce, cantando anche una splendida
canzone italiana... Film franco-algero-palestino-etiope-elleno (per
dire un concentrato di Nikos) che diventa anche il più bel
film rimasto sul 1977 italiano, quella data che non è più
un '68, non è ancora la mancanza di date successiva, data che
fu insieme d'ipercoscienza e d'ignoranza.
Ma
(ri)vedendo Gloria
mundi vi
scopriamo anche (Bertrand Mandico se ne accorse), sullo sfondo del
denudarsi di Olga, tre manifesti: Le
Fantôme de la libertè di
Buñuel, un film da precisare con Linda Boyce e Contes
immoraux.
E
così arriviamo a Borowczyk. Vicino/lontano anche qui: è
da quando egli era ancora in vita, che I mille occhi ipotizzarono di
invitare Boro. A gennaio di quest'anno si è arrivati
all'ottima rassegna con catalogo curata da Alberto Pezzotta per il
Trieste Film Festival. Ma proprio perché fu ottima dovette
sottolineare alcune cose e meno altre che ci premono. Se è
vero che, tra i film con Marina Pierro, i due lì presentati
(Le Cas étrange
du Dr. Jekyll et Miss Osbourne rititolato
produttivamente Dr.
Jekyll et les femmes,
Tout desparaîtra
rititolato
Cérémonie
d'amour)
sono le punte, il percorso italiano, adombrato beffardamente in La
Bête,
con Dalio che telefona al Vaticano, i "convertiti" che vogliono
ricostruire le campane di Roma nella campagna francese, i preti che
alla fine arrivano come in una parodia di The
Exorcist,
percorso poi realizzato tra Stendhal, Ovidio, Boccaccio e Raffaello,
è un nucleo borowczykiano essenziale. Ai film con Ligia
Branice era legata una diretta (poco notata) ispirazione dreyeriana:
Rosalie aquittèe,
Glossia resurrecta preludono all'Interno
di un convento che
contiene una voluta negazione dell'esistenza dell'Inferno, e che si
conclude con lo stendhaliano personne
ne fut punie et
l'affaire fut
classè.
La Pierro che appare tra quella moltitudine di jouissances
femminili
diventa centro del successivo episodio di Les
Heroïnes du mal,
in cui suo amante è Gérard Falconetti (riprendendo la
riapparizione di un figurante di La
Passion de Jeanne d'Arc in
Goto, l'île
d'amour).
Se su Boro la critica italiana ha dei punti di privilegiata
consapevolezza (soprattutto nel passaggio da «Filmcritica»
a «Fiction», con Michele Mancini e Alessandro
Cappabianca), tuttavia delle vie sono rimaste inesplorate. Di quella
pista dreyeriana è oggi determinata testimone Marina Pierro,
la cui presenza è un altro grande dono che I mille occhi
accolgono con riconoscenza.
Vicino/lontano
anche nel rapporto tra Claude Autant-Lara e Pier Antonio Quarantotti
Gambini. Dei motivi che ci portano a occuparci del regista francese
diremo meglio il prossimo anno. Abbiamo voluto anticiparli col film
più tentatore: l'apocrifa versione di L'onda
dell'incrociatore,
via Aurenche e Bost, con la ricostruzione adriatica nel Midi, diventa
apocrifa alla massima potenza, con CAL che litiga col produttore e
toglie la sua firma, con questa versione di coproduzione italiana che
riscrive il francese nell'italiano dello scrittore istriano, con la
critica più lungimirante che si spacca di netto: Douchet
disgustato, al punto da insultare CAL come maniaco senile che
vorrebbe mettere le mani nello slip di Danièle Gaubert (e il
regista lo porta in tribunale vincendo simbolicamente la causa con un
franco di risarcimento); ma contemporaneamente è il film che
spezza l'incantesimo del CAL méchant
per
i «Cahiers», Delahaye e Narboni se ne appassionano
proprio a partire da questo film. Un regista di furori forse mai (né
quando fu di sinistra né quando fu di destra) "coerenti",
che fu insieme borghese e antiborghese, che dell'essere mangiapreti
ha fatto un rito, che ha incuneato le proprie talvolta antisemite
idiosincrasie tra l'universo dell'agnostico cattolico Aurenche e
quello dell'agnostico protestante Bost... ce n'è abbastanza
per attirarci, e il prossimo anno cercheremo di coinvolgere nella
riscoperta quanti seppero coltivarla, da Freddy Buache a Chardère
e altri di «Positif» a, in Italia, Maurizio Cabona.
Altrettanto
su McCarey (che prima di essere il rovescio di CAL per via di
religiosità lo è per via della sua trasparenza
cinematografica estranea al "caricare" di Autant-Lara) vorremo
coinvolgere quanti seppero vederne la grandezza, e di cui in parte i
nomi ricorrono tra gli autori di testi in questo catalogo.
Ci
piacerà anche cercare contatti con la rassegna che ci prepara
Olaf Möller sul cinema tedesco-occidentale. Laddove un ulteriore
contatto (Frank Wisbar) sarà con Dreyer stesso. E chi scrive
non si priverà di seguire il déracinement
germanico
della folgorante Belinda Lee.
Altre
convergenze (anche via demiurghi e baccanti) troveremo con Cottafavi.
Su cui quest'anno c'è più che altro una sottolineatura
alla nostra continuità d'attenzione. Con un azzardo: Vittorio
De Sica, anche attore per Cottafavi, che nello straordinario I
nostri sogni potenziava
le fonti cameriniane oltre ogni sociale, diventa maestro di un
dopoguerra inteso come difficile rottura, con Sciuscià,
film di cui giustamente Welles vide la geniale mise
en scène,
film da cui Cottafavi (senza che se ne rechino tracce nella fortuna
critica) trovò slancio per il progetto non realizzato di
tentato produttore per Ladri
di biciclette,
film infine che oggi ci appare fonte di una parafrasi oltre il
sociale nel dileggiato (dagli stessi che osannavano De Sica) Fiamma
che non si spegne.
È un altro paradosso come il doppio tra Roma
ore 11 di
De Santis e Tre
storie proibite di
Genina: due film che s'ignorarono (nella mondanità dei riti
critico-festivalieri) ma che in realtà "si guardano", per
sottolineare il verbo di un De Sica precedente: nel rapporto De
Sica/Cottafavi bisogna proprio partire dal motivo in cui Welles notò
la massima genialità registica, quello del cavallo (mai chiave
solo "poetica", piuttosto irruzione di un altro mondo nel film,
di un'altra vita che è poi, oltre la fiction, quella del
cavallo), per vedere nel film di Cottafavi una voluta parafrasi oltre
il sociale, tra incarnazione e immagine, col cavallo in dipinto che
diventa universo del sublime finale.
Lo
ridiciamo: che siano coesistiti Roma
ore 11 e
Tre storie
proibite,
Sciuscià
e
Fiamma che non
si spegne,
coppie di film che erano vicini e lontani insieme, è la prova
numero uno di una (perduta) grandezza del cinema italiano.
Un
altro luogo di rapporto vicino/lontano lo possiamo rintracciare in
Baratier, su cui questa terza parte non si vuole una conclusione:
restano da indagare i corti e i documentari. Il regista ci fa l'onore
di offrirci in anteprima la versione definitiva dei suoi Désordre:
sessant'anni di tournages
e
montages a
partire da Saint-Germain-des-Près (il
n'y a plus d'après après Saint-Germain-des-Près),
sessant'anni di presenze divine
(dall'incantato
anche verso il femminile Audiberti, a Cocteau, a Artaud tra Faits
divers di
Autant-Lara a Pour
en finir avec le jugement de Dieu),
di sublimi baccanti (Marie-Hélène Breillat nel suo
ballo estatico, Hermine Karagheuz presenza attraversatrice, Juliette
Gréco stregante, Emmanuelle Riva attrice audibertiana en
amour,
Yahne Le Tourmelin danzatrice lettrista, Diane Deriaz acrobata
cocteauiana, poi riapparente in L'Araignèe
de satin,
Alexie Ribes garanzia "odierna" dell'eterno riapparire del
femminile)... orbene Bulle, la da noi l'anno scorso gioita Bulle
Ogier vi compare non solo nell'Ur-Idoles
teatrale,
ma (in questo montaggio definitivo) in un'inquadratura con sfondo di
schermo bianco che è quello della sala video del Miela,
inquadratura ripresa l'anno scorso qui tra noi (alla camera Jackie
Raynal). Lo diciamo non solo per orgoglio ma perché testimonia
l'infinitezza contenuta in questo montaggio. E poi, se non lo
scrivessimo ora qui, nessuno (che paradossalmente volesse
"catalogare" dentro l'universo di questo film) potrebbe mai
immaginare che non si tratti di una ripresa parisienne
ma
triestine,
con inversione rispetto al set reinventato di Les
Régates de San Francisco.
Baratier,
cineasta divenuto amico del nostro festival, ci collega anche, con le
sue molteplici ispirazioni letterarie e "culturali" (tra cui in
L'Aragnèe
de satin il
testo protosurrealista di Palau) a quel gioco in cui il nostro
festival sta sempre più avventurandosi: "del cinema e delle
arti" non per cercare contesti nobilitanti ma per godere di quanto
è già nell'evidenza del cinema. Castelli, come nelle
passate edizioni altre presenze oltre il cinema (e parlando di
rabdomanti prima o poi dovremo occuparci di Bazlen, Colli e
dell'amico Roberto Palazzi), ci fa vedere che il cinema è
ovunque. E le ispirazioni letterarie non vanno considerate pesantezze
del cinema, quasi raddoppiando (anche dentro lo spettacolo) la
funesta spinta verso la noia di ciò che andrebbe gioito, da
parte delle istituzioni scolastiche dai licei alle università.
Il "gioco" appunto su Stendhal, Racine o magari Dostojevski,
Conrad, Colette, o Shakespeare e Dante, in cui vogliamo avventurarci,
è, crediamo, in sintonia profonda con il bisogno del cinema di
"cercar storie" senza che ciò lo freni nell'invenzione.
Vogliamo concederci una citazione da Once
Upon a Honeymoon di
McCarey, laddove da Robert Browning si slitta a Schopenhauer a
Shakespeare a Irving Berlin. Anche in questi percorsi "letterari"
ci attirano le convergenze: Fantasmi
a Roma non
solo perché almeno un film con Belinda ci voleva ma perché
Pietrangeli, oltre che uno dei grandi cineasti italiani, è
stato traduttore di Suor
Scolastica di
Stendhal, scrittore da cui non ha direttamente tratto film. Racine, i
cui versi già ascoltammo in L'Amour
fou,
e che ci piacerà seguire in futuro da Frederick Wiseman a Anna
Gaël, apre un contatto con Jean-Claude Rousseau, la cui
contiguità con Straub-Huillet è bello intrecciare anche
col Corneille di costoro: il film di cui Danièle disse «C'est
mon film préferé parce que le plus barbare, et il parle
ma langue maternelle» (in «CinémAction» n.
93, 1999, ripreso nel bel testo sul film di Benoît Turquety in
«Trafic» n. 66, 2008).
Il
parallelo stendhaliano che studiosi più addentro di noi hanno
visto in Manzoni ci consentirà di aggiungere ai film varianti
sulla serie (apocrifa ma fertile) delle Chroniques
italiennes
anche le molteplici variazioni, incluse quelle parodistiche e quelle
erotiche, sulla Monaca di Monza (col bonus non annunciato dei trailer
di due film della fondamentale Globe International, il Gallone e il
Corbucci poco dopo in proiezione). E con una licenza anticipiamo
un'altra serie spostata in parte sull'Italia, i Crimes
celebres di
Dumas padre, che consentirà anche un ritorno su Cottafavi.
Senza
dilungarci troppo sui mille progetti futuri, ancora poche parole su
alcune altre presenze in programma. Sonja Savić fu al nostro
festival alcuni anni fa per presentare i suoi video da regista, forse
troppo incontrollati ma che anche perciò riuscivano a
trasmettere un universo mentale incontrollabile per chiunque. Mai
però faremmo nostre le parole (dette a Trieste, per
l'anteprima del suo secondo film con l'attrice) di Jan Cvitkovič,
che apprezzammo per i suoi due lungometraggi con lei protagonista:
«sono certo che lei è più felice ora, ovunque si
trovi». La felicità che invece adombriamo nel titolo
dell'omaggio si coniuga con quella vocazione di mima, allieva lontana
di Marceau, di Sonja: vocazione che rende unico (Unico?)
l'erotismo di Una,
anche se perciò forse meno flagrante di quelli che ci
incatenano a una presenza. L'omaggio a Sonja ci consente anche un
omaggio, di cui ci sentivamo debitori, a Vuk Babić, suo regista
nell'incompiuto dittico conclusivo della sua breve opera: Vuk, che
già volemmo ricordare in occasione della personale Šepit'ko
(fu amico di Klimov), rivelò in occasione della nostra
preparazione della monografia sull'onda nera jugoslava (rassegna che
sta all'origine del ritorno alle invenzioni triestine da parte di chi
scrive, dopo i brevi tempi di «La cosa vista») una
straordinaria, generosa profusione di piste, che seppe lasciarmi
libero di seguire o meno e di cui purtroppo non potè vedere la
scelta. L'opera su schermo di Vuk, come quella registica di Sonja,
non sono "compiute": il loro valore è inscindibile dalla
presenza reale di chi volle crearle, ed è in ciò che
Sonja e Vuk ci ricorderanno all'infinito che il cinema è una
strana arte, capace certo di perfezioni ma la cui perfezione stessa
vive dell'imperfetto: vive insomma della vita (che è come
ammettere che può soffrire di malattia, rischiare la morte).
Da
Vuk, che morì a Trieste, a Marcella Battelini, nata qui ma
morta e seppellita chissà dove (Radacich, che ha seguito le
sue piste dopo l'abbandono del cinema e dello spettacolo, mantiene un
molto corretto "rispetto della privacy" sperando di scoprire cose
più precise). La bella mula
che
diventa miss e poi aspirante diva (e Angelo Cecchelin nella sua
canzone del 1927 Miss
Katiza,
ricantata nel 1941 da Jole Silvani come Katiza
la diva del cinema,
si diverte non meno genialmente di un Petrolini a fantasmare nomi di
dive, da Italia de' Grandi Magazzini [da Almirante Manzini] a Cicoria
Zwanzica [Gloria Swanson] a Leda de Ghisa [Gys], da Jole proseguiti
con la coeva Isa Vivanda [Miranda]). La Lola Salvi con cui si
ribattezzò Marcella fu una creatura altrettanto fantasmatica:
il suo sogno divistico, che la portò a raggiungere a Hollywood
Rabagliati, si scontrò con l'incompiutezza. Marcella, uscita
dalle grotte carsiche, tornò a nascondersi nella vita, questo
cinema ancora più imperfetto. Ma in mezzo fu Hollywood (la
Fox) a costringerla a celarsi: è difficile spiegare perché
(sfiducia registico-produttiva nelle sue capacità d'attrice?
rivalità femminili?) nel film di Walsh (film dell'imperfezione
così rara per lui, set del suo mezzo accecamento) sia
inquadrata nascondendola, o dalle sue stesse braccia fatte alzare in
segno di resa o da altre figure umane che la mettono sullo sfondo.
Abbiamo accolto con entusiasmo l'iniziativa di Radacich per il
centenario, e già progettiamo di proseguire con lui questa
speleologia del
cinema con
un'altra conterranea, Lia Franca, che le succedette a miss e poi
partecipò (con Blasetti, Brignone e Camerini) a quel bel
momento di «rinascita» del cinema italiano alle soglie
del sonoro.
Ci
scusiamo se qualcosa in queste nostre proposte può apparire
esoterico, ci sentiamo molto più tentati da vocazioni
popolari. Spieghiamo perciò perché in quel percorso
Politica dei
critici,
che quest'anno inauguriamo con tre omaggi, vi sia quella X tra
parentesi: per sottolineare che sin dalla prima edizione del festival
quel percorso, benché non evidenziato, fu presente. Rovistando
nei nostri passati programmi e cataloghi ci siamo accorti di aver in
qualche modo trattato di una decina di maestri della critica: Alberto
Farassino (cui ora rinnoviamo l'omaggio per Tortura),
Jean-André Fieschi (che fu nostro ospite per parlarci della
"Lilith" Jean Seberg, e che quest'anno dobbiamo riomaggiare per
la sua recente morte), Michele Mancini, Robin Wood, Piero Tortolina,
Marco Melani, Jacques Audiberti, e (in forma di scontro su questioni
stendhaliane, l'anno scorso) François Truffaut e André
Bazin, con giusto numero dieci per quest'ultimo, al di là
degli errori faro massimo. Come si vede non si tratta di un
"progetto" sistematico, men che meno dogmatico. Possiamo amare
anche quanti furono in feroce contrasto: Rohmer e i suoi splendidi
pianeti (Domarchi, Demonsablon, Douchet), il Godard critico e
cineasta che continua a dividere (anche dentro il comitato di I mille
occhi), il Fieschi che si allineò con determinatezza alla
svolta di Rivette nei «Cahiers du cinéma», il
Delahaye che fu ed è molto più diviso a riguardo, lo
Skorecki/Noames che attraversò anarchicamente l'era
successiva, daneyana, della rivista, i grandi solitari (Hoveyda,
Vecchiali - altro cultore mccareyano), le avanguardie «Présence»
(Mourlet, Rissient, Lourcelles), altri solitari disseminati per il
mondo (da James Agee a Drouzy, la cui opera su Dreyer ha meriti
impagabili), e seppur offesi come dreyeriani da certi loro giudizi,
anche i più personali positifisti
(a
cominciare da Tailleur e dai coniugatori del surrealismo critico)...
Una costellazione che, con aggiunte (ciascuno dei membri del nostro
comitato ha nomi in più da sostenere), vorremmo continuare ad
osservare.
Tra
questi nomi vi sono, come si vede nell'elenco, dei solitari italiani
di cui siamo stati amici e che ci teniamo a riproporre (per essere
enfatici aggiungiamo: alle nuove generazioni). Non temiamo di fare
scelte controcorrente, come in tutto il resto dei nostri programmi.
Il nostro percorso tra i critici non è una complicità
di categoria: è la fiducia che quest'arte demiurgica (la
critica cinematografica) possa non essere estranea alle virtù
demiurgiche del cinema stesso. Una cosa è poi la stima
selettiva (che abbiamo avuto per esempio per Tullio Kezich) e
un'altra la condivisione di passioni: che può anche coniugarsi
col conflitto, o la presa di distanza, ma riconosce nell'altro
spettatore-critico un universo umano-cinematografico in convergenza
parallela col nostro. Del triestino Gianni Menon condividevamo al di
là di ogni possibile distanza il suo partire dall'amore.
Cineasta a suo modo incompiuto, egli ha però profuso in ogni
sua realizzazione l'universo dei suoi amori, talvolta originati da
fuori dal cinema (l'arte della Callas, ch'egli è capace di
sovrimprimere anche sulla sua visione di Gemona a dieci anni dal
terremoto). In un programma sui cineclub lo vediamo ritrovarsi
insieme a Farassino e Enzo Ungari, attraversatori in epoche diverse
dell'avventura «Cinema & Film» che Gianni percorse
dall'inizio ai tentativi di non metterle fine, e che ebbe una
convergenza nello splendido libro Dibattito
su Rossellini da
lui curato, che oggi si ripubblica per iniziativa del compartecipante
Adriano Aprà per le edizioni Diabasis, e che presenteremo al
festival unitamente al varo del Fondo Menon donato dal fratello
Vincenzo alla Cineteca del Friuli, che vede tornare Gianni a Gemona
come uno splendido fantasma.
Insomma,
il nostro festival, senza sforzarsi affatto, scopre nella stessa
realtà cittadina e regionale ben più di quanto non sia
sotto gli occhi di tutti. Sempre più ci si dimostra che delle
rivalità con le altre rassegne cinematografiche non sappiamo
(di questo sì) che farcene. Se tutti cerchiamo di fare il
massimo, non potremmo desiderare di meglio. Un festival come il
nostro, cui capitano in dono anteprime mondiali e internazionali per
distrazioni dei maggiori festival italiani e internazionali, non
rinuncia a far proprio un film pochi mesi prima presentato a un altro
festival cittadino (il Nododocfest), Inês
di
Delphine Seyrig, quand'esso si rivela appartenente e necessario ai
nostri percorsi.
Forse
di questi percorsi ci si sta accorgendo. Quanti pontificano su ciò
che è di nicchia e ciò che rivelerebbe invece un
successo, partono in genere da una ridicola e disonesta tautologia:
ciò che va bene va bene, ciò che va male va male. A I
mille occhi interessa spostarsi nelle attenzioni, incontrare sguardi,
condividere invenzioni, scoprire passioni: insomma il contrario
della gestione dell'immutabilità e della rinuncia. E anche se
riconoscimenti come l'invito a realizzare un'anteprima romana,
partnership in crescita come quelle coi massimi archivi e istituzioni
italiani e internazionali, intercettazioni di attenzioni critiche
come quella di un enciclopedico volume sui festival («Dekalog»
n. 3, a cura di Richard Porton, Wallflower, London & New York
2009), iniziative condivise con gli enti pubblici (incoraggiantemente
in crescita col Comune di Trieste, convintamente confermate nel
Premio Anno uno sostenuto dalla Provincia, di ribadita fiducia dalla
Regione) sono altrettanti successi, vogliamo però prima di
tutto segnalare l'arricchirsi di nomi (collaborazioni di vario grado)
leggibili nelle pagine del colophon. Quell'elenco di nomi fa parte di
ciò che intendiamo come cinema.
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