Introduzione

Per farla finita con la storia del cinema
di Sergio Grmek Germani

Quelque estendue d'esprit que l'on ayt l'on n'est captable que
d'une grande passion.
(Blaise Pascal [?], Discours sur les passions de l'amour)

Per quanto vasta sia un'anima, di grandi passioni non ne può
contenere che una.
(tr. Luigi Foscolo Benedetto, in Il "Discorso" di B. Pascal "sulle
amorose passioni"
, Campitelli, Foligno 1923)

Son mille le vite
son mille le morti
che sento dentro me.
(Olga Karlatos nel canto italiano in La tortura,
versione italiana di Gloria mundi di Papatakis)

Mit allen Augen sieht die Kreatur
das Offene.
(Rainer Maria Rilke, Duineser Elegien, VIII)

Con tutti gli occhi la creatura vede
l'aperto.
(tr. Franco Rella, in Elegie duinesi, BUR, Milano 1994)

Abbiamo concluso il festival 2008 con Lilith, la donna prima di Eva. Ora ripartiamo da Eva, progetto fondante e irrealizzato di un film (Adam and Eve) di Leo McCarey, perfettamente adombrato in My Favorite Wife, che McCarey, essendo uno tra i massimi cineasti, non ha avuto nemmeno bisogno di dirigere personalmente per renderlo suo.
Ma chiariamo subito: si occupano di cinema I mille occhi? Se il cinema è il rivelatore della vita, forse sì.
Il fatto che non ci priviamo della pluralità (di presenze e di realizzazioni) che il cinema implica, non è per pura golosità, o peggio per incapacità di scegliere. È proprio perché questa pluralità (mille occhi, cioè appunto mille vite e mille morti) è quintessenziale al cinema, irrinunciabile per esso. Anche l'umanità è troppo poco per il cinema. E se il cinema fa proprio il disegno di un Dio, non può farlo perdendo la vita accidentale di nessun essere. È quanto c'insegna Dreyer, regista che ci è fonte di massimo orientamento insieme a Rossellini, senza che ciò ci porti a privarci di Giorgio Bianchi o Nando Cicero o Joe D'Amato, nei quali non temiamo di scoprire una contiguità reale con le punte del cinema. Così come nelle presenze dentro il cinema, nella loro bellezza non sacrificabile, scopriamo il vero destino di quest'arte, la sua missione Ordet. Le indimenticabili Jean Seberg, Dawn Addams, Belinda Lee, Piper Laurie, Sylvia Lopez, che segnano col loro fermo immagine le edizioni del nostro festival, sono per noi non (secondo termini abusati e vuoti) "icone", se non nel vero coniugarsi dello splendore dell'icona sacra con una presenza reale. Chi scrive non ha difficoltà a concedere che quei nomi-corpi hanno segnato il suo vissuto da spettatore, che l'intrecciarsi tra storie della finzione e sacrificio reale nelle loro presenze costituisce la sfida di fronte a cui vediamo porcisi il cinema. Per dire della presenza di quest'anno, il sacrificio della sua regina di Lidia ci agitò per parecchie notti (ma solo oggi scopriamo che Sylvia Lopez, nata Tatjana Bernt, è, al di là del nome da sposata, austriaca con componenti slave). Nessun dubbio che, se questa serie di immagini proseguirà, le prossime icone potranno essere, in un ordine da precisare, Martine Carol e Danièle Gaubert, già presenti nel programma di quest'anno, e Marta Toren, Eleonora Rossi Drago, Nadia Gray, Natalie Wood e Tina Aumont, a cui già ci eravamo avvicinati, e Gianna Maria Canale, che è tra le presenze di cui quest'anno si è svuotato un mondo capace di sopportare anche la perdita della bellezza di Marilyn Chambers, Trine Michelsen, Renata Mauro, Eartha Kitt, Bettie Page. Terribile questo 2009 in cui anche cineasti che prima o poi avremmo desiderato ospiti del festival hanno abbandonato il cinema: i grandi Xie Jin, Kostas Sfikas, Gerard Damiano, Robert Mulligan. E ci hanno lasciato amici che sono stati al festival: Jean-André Fieschi, Gianni Alberto Vitrotti, Nika Bohinc.
Scrivendo questo, non riesco a dimenticare come Alberto Farassino fosse stato tra i pochi a capirmi, lui apparentemente più freddo di altri critici cinefili, in questa tensione tra registro e ribellione (sono parole mie, non sue).
Ben sappiamo che mille occhi si nascondono, pronti a vedere con noi, e che da un momento all'altro appariranno.
Il festival di quest'anno appare propizio a questa apparizione.
A Leo Castelli ci affidiamo come a quel rabdomante che è stato. Vedeva la bellezza e "subito" altri vedevano con lui.
Al da lui rivelato Warhol ci affidiamo come all'artista dell'evidenza (non certo dell'apparenza, signora della contemporaneità), colui che firmando delle presenze poteva renderle imitazioni del Cristo.
In un programma che non rinuncia alla pluralità (giù giù a venerare, e non è un atteggiamento ma una fede, Sirpa Lane e Lisbeth Hummel, nella sua volontà di diventare "davvero" attrice la prima sentendosi invece oggetto di desiderio in un corpo esplosivo poi minato dall'Aids, nella sua riconciliata migrazione da attrice a pittrice sopravvissuta la seconda non meno e diversamente sconvolgente: giacchè il cinema è fatto per sconvolgere), in un festival che non si vergognerebbe, come fa il massimo festival italiano, a ospitare Paris Hilton e Patrizia D'Addario, insomma a I mille occhi, il programma di quest'anno si sa e si vuole segnato da alcuni tra gli arcani maggiori del cinema.
Tra i tanti film, di cui nessuno programmato senza convinzione, fanno perno due titoli che non temiamo di dichiarare non solo tra i massimi capolavori del cinema (al di là della storia, contro la condanna a rendersi passato, retrospettiva, necrologia) ma addirittura tra i momenti più alti del pensiero del XX secolo. Sì, c'è Heidegger che rivela Hölderlin e Rilke, ma ci sono anche Dreyer e McCarey.
Leo McCarey, il genio comico che ha saputo inventare la coppia assoluta (Laurel e Hardy), è anche l'Eschilo dell'America, come sarà ancora più evidente quando il prossimo anno programmeremo My Son John, sublime tragedia americana. Il suo The Bells of St. Mary's è la punta in una filmografia di capolavori, nei quali ogni inquadratura è quella giusta. Il regista forse più unanimemente ammirato dai massimi registi (Ford, Ozu, Renoir, Hitchcock, Cukor, Hawks, Lubitsch, Capra, Browning, Resnais), i quali lui a sua volta ammirava (ma sopra tutti Chaplin), il regista che nel cinema americano costituisce con Ford, Walsh, Dwan e King la massima perfezione, ci dà con Bells il film in cui, come in Ozu, il tempo si sospende oltre la biforcazione vita-morte. Un film in cui si realizza come possibilità quella presenza di cui Dreyer allontana il sacrificio, in cui tra anime e corpi, sempre tese a dividersi in Rossellini (salvo forse nel sublime finale di Blaise Pascal), s'interpone il cinema. Irlandese cattolico, attratto da missioni come quella dei Christophers, regista preferito da papa Pio XII per Going My Way, McCarey riesce a parlarci oltre le confessioni: ciò che Dreyer perseguiva, credere nella resurrezione senza affidarsi ad alcuna confessione religiosa, diventa per McCarey il respiro del cinema. La "genialità del cristianesimo" assunta da Rohmer può qui coniugarsi anche con la leggerezza di far propria l'istituzione cattolica. Dobbiamo parlare di grazia per la capacità che ha la commedia mondana di My Favorite Wife di parlarci insieme di un nuovo paradiso terrestre (Adam and Eve Resurrected?) e di concedersi nel finale una transustanziazione del Natale più eretica che nel più blasfemo dei film? Senza dimenticare la capacità del cinema di McCarey di contenere presenze reali: in Bells Ingrid Bergman monaca canta nella matericità della sua lingua svedese, superando i confini della finzione, che è appunto quanto McCarey, prima di Rossellini, è capace di fare. Nei film precedenti la risata sensuale dell'irlandese Irene Dunne va oltre gli scatenamenti screwball. E tra le vecchie suore di Bells, non remote dai frati di Francesco giullare di Dio, vi è anche la Eva Novak che fu protagonista del primo, perduto film del regista, Society Secrets, rivelazione di un segreto invisibile cui rendiamo omaggio titolandovi la rassegna. E si diceva delle affinità elettive: Ford che si offriva di firmare un film diretto da McCarey, Ozu che ne faceva un remake, Hitchcock che McCarey voleva protagonista di un suo film e che concesse i raccordi mancanti per My Son John (sul quale non ci dilunghiamo quest'anno: il modo in cui elude la morte di Walker lo rende film capitale tra i capitali)... e poi i chiosatori: Stevens già operatore dei suoi corti comici muti, Capra che nel suo capolavoro It's a Wonderful Life rende soggettiva di Stewart risorto l'insegna del cinema che proietta The Bells of St. Mary's (con sotto il titolo «with Second Great Feature», implicita autocandidatura).
L'altro arcano maggiore del programma è Vampyr di Dreyer. (Su cui va precisato che, programmandone la versione francese divenuta rara dopo il restauro di quella tedesca prima sconosciuta, al di là dei sottotitoli serbi e del richiamo a Andra Glišić, ci si vuole un po' far beffe di come si gestiscono superficialmente le vicende del cinema, al punto di veder uscire lussuose e premiate edizioni in dvd a più dischi incapaci di mettere insieme due versioni dello stesso film attorno ai 70 minuti, quando solo le due versioni fatte vivere insieme non tradiscono l'ansia oltre gli sdoppiamenti che c'è nel film: anche se il film è soprattutto tedesco, esplicitamente pre- e antinazista, solo nel sottotitolo della versione francese si esplicita il nome ebreo del protagonista, che la stampa d'epoca non mancò di rilevare: «David dunque ebreo», mentre nella versione tedesca è Allan Gray). Vampyr è il film che rovescia tutti i nichilismi: disseminato di segni di morte per negare le messe a morte (come il «qui non ci sono né bambini né cani», detto dal medico che semina morte e che, come in A Corner in Wheat di Griffith, finisce messo a morte nella farina del mulino, riuscendo a farci udire tra i suoi rantoli solo un ripetuto «nessuno» che è insieme lamento e persistenza a negare [e quel dittico farinoso dreyer-griffithiano, già opportunamente fatto proprio da Straub-Huillet, si unisce nella memoria a altri luoghi di violenza nichilistico-produttiva sulla natura, il rovesciamento grano-morte di L'assedio dell'Alcazar di Genina, o all'opposto il pindarico Vendemmiaire di Feuillade]; come l'«à ouvrir après ma mort» scritto dal padre; come il «Tout est poussière et tout retournera à la poussière»» sulla parete e sulla bara che vuole segnare il destino di David, condannandolo a quella soggettiva del proprio funerale che pare ispirata a San Francesco a Ripa di Stendhal). Ma tra questi segni di morte s'intrude l'aperto della liberazione. L'inquadratura in cui si slacciano i polsi legati di Rena Mandel è davvero un'icona assoluta (provai però a eleggerla immagine per manifesto: impossibile! sembravano polsi che venivano allacciati; quel luogo del film, seppur breve, richiede il movimento del cinema per intendersi una liberazione e non il suo contrario). L'agonia della carissima Sybille Schmitz è salvata dall'avvelenamento in extremis, come in una soterologia griffithiana. E il servo si mette a leggere il libro che David non sa continuare a leggere, il servo lo porta a interrompere l'incantesimo della morte, a far giustizia di chi produce morte. Se proprio vogliamo parlare di storia del cinema, allora diciamo che tra La Passion de Jeanne d'Arc e Vampyr, tra il sacrificio come ingiustizia non negabile del primo e l'andar oltre la follia (di Artaud e di Dreyer) del secondo, vi è la vera controstoria del XX secolo, quella in cui nessuna rivoluzione è riuscita a vincere. Vedendo Once Upon a Honeymoon di McCarey nel suo rapporto con la storia (della Shoah, perciò pensavamo di programmarlo con Pasażerka di Munk ma poi abbiamo fatto un salto mortale ulteriore coniugandovi il Cottafavi su Eichmann [le Giornate del cinema muto che ci seguono di pochi giorni riveleranno, con Die Gezeichneten, programmato insieme a Du skal ære din hustru, che quel motivo è al centro dell'opera dreyeriana, inclusi Vredens dag e il progetto Jesus]) si ha una percezione di flagranza ulteriore rispetto ai geniali teoremi di Lang o di Lubitsch.
Quale fortuna maggiore poteva dunque capitare al nostro festival che di trovare per il suo Premio Anno uno un film, Cançao de Baal, che nella generale indifferenza delle manifestazioni cinematografiche riparte da quel capolavoro di Dreyer? Un film del 1932 e un altro del 2009 uniti oltre il pensiero totalitario dell'attualità (magari fosse l'attualismo di Gentile!). Uniti anche dal cogliere nel cinema l'arte della presenza.
«Présence du cinéma», come sapeva la più lungimirante delle riviste di cinema, significa innanzitutto la presenza che è nel cinema, cinema come art ignorè della presenza.
Impossibile occuparsi di cinema senza scheggiare i mille occhi che ciascuno di noi ha di quella (com)presenza, nella realtà anfibia dell'immagine, di ciascuno dei corpi che vi si è inciso. Tra Renée Falconetti e Edy Williams ci può essere un abisso, ma quell'abisso è appunto la ragion d'essere del cinema.
Un festival cinematografico è il luogo dell'imperfezione, che (lottando anche contro la dittatura dell'economia) cerca di unire presenze e di negare il sacrificio di esse.
Avremmo voluto presenti, in occasione del Premio all'adorata Helena Ignez, anche le attrici che lei ha riunito nel suo film. Dobbiamo rinviare questo ulteriore appuntamento al futuro. Vogliamo però sin da ora far sentire la presenza di Djin Sganzerla, non solo con quel film materno che la contiene in tutta la sua realtà, ma anche evocando ciò che disse dall'ultimo set paterno, quell'O Signo do Caos che presentammo alcuni anni fa con un azzardo anticipatore. «Non sembrava neppure che si stesse facendo un film» disse Djin di quel set. Quando il cinema è grande, infatti, non sembra mai che si stia facendo un film.
Ribadiamo quanto nella motivazione del premio: siamo noi a ricevere un dono da quel film. Di fronte alla dilagante pomposità dei festival che fanno cadere dall'alto sugli autori e i film la loro "scelta", noi vorremmo sottrarci a questa pratica immorale e insensata. Non perché non riteniamo di avere idee e punti di vista ma proprio perché li abbiamo, e tra essi vi è quella ricerca di qualcosa che ci arrivi dalla realtà (del cinema) che è la lezione rosselliniana del cinema stesso. E per fare un balzo udigrudi evochiamo ciò che Julio Bressane non cessa di dire: se sapessi perché ho fatto un film, ci sarebbe ragione a farlo?
C'era qualcosa che univa la Belair e Bressane con Nico Papatakis, prima di questo festival? In ogni caso ora c'è, con le due splendide variazioni su Les Bonnes di Genet da proiettare insieme. Al punto da prenderci sin troppo gusto: Federico Rossin in catalogo stende la traccia filmografica delle sorelle Papin, che subito fa venir voglia di programmare il Samperi per omaggiare Trine Michelsen (non meno di Florence Guérin: questo coesistere nello stesso film di una viva e una morta negatesi entrambe al cinema ha qualcosa di profondamente "papiniano", si trattasse pure di un film non rivalutabile). Ma anche, attraverso la versione con Susannah York (e Glenda Jackson) di ricordarsi che Aldrich ha "papinizzato" in The Killing of Sister George e forse in altri film di doppi femminili; e che Chabrol ha "genetizzato" da Les Bonnes (sic) femmes a La Cérémonie.
Papatakis c'interessa a priori tra i registi che hanno affidato l'intensità del proprio rapporto col cinema a pochi film: la prima edizione di I mille occhi partì da alcuni di quei registi (Vigo, Erice, Val del Omar, Troisi, Damianos). Dei cinque capolavori di Papatakis solo «Positif» ha saputo scrivere con la giusta continua attenzione. Ma su Gloria mundi, il film a versioni plurime e pluriennali che abbiamo eletto a film inaugurale del festival (un azzardo anch'esso, un atto di guerriglia urbana), c'è stata un'attenzione ancora più isolata: di quelle che non cessano di provarci che il vicino e il lontano sono contigui. Del film iniziato nel 1974 il regista curò un'edizione italiana nel 1977 il cui titolo esplicitante, La tortura (così nei titoli ma sui manifesti appariva la lezione senza articolo), va oltre le furbizie sado della distribuzione. Che non gli giovarono, il film rimase clandestino in Italia come altrove. Un uomo solo seppe vederlo, e il paradosso è che lo vide nella stessa sala dove ora lo riproiettiamo, il Miela allora ancora Cinema Aldebaran. Si chiamava Alberto Farassino, lo recensì su «La Repubblica» (vedi nel catalogo), e su Il Patalogo uno, avvio della troppo breve pata-impresa di Gianni Buttafava, indicò appunto Tortura come il film più sottovalutato dell'anno. Intuizione meravigliosa perché oggi Gloria mundi ci appare tra i film più sottovalutati degli ultimi trent'anni. E quella versione italiana, che proiettiamo in terza serata (dopo un Fulci che già sottolinea l'orrore sul corpo della sublime Olga Karlatos), è una rivelazione ulteriore: in quella tensione, che Gloria mundi mette in scena, tra presenza di un corpo femminile e assenza-presenza dello sguardo mettinscena, la versione italiana rappresenta uno spostamento verso l'impossessarsi dell'immagine da parte di quel corpo, con la Karlatos che si doppia con la sua voce, cantando anche una splendida canzone italiana... Film franco-algero-palestino-etiope-elleno (per dire un concentrato di Nikos) che diventa anche il più bel film rimasto sul 1977 italiano, quella data che non è più un '68, non è ancora la mancanza di date successiva, data che fu insieme d'ipercoscienza e d'ignoranza.
Ma (ri)vedendo Gloria mundi vi scopriamo anche (Bertrand Mandico se ne accorse), sullo sfondo del denudarsi di Olga, tre manifesti: Le Fantôme de la libertè di Buñuel, un film da precisare con Linda Boyce e Contes immoraux.
E così arriviamo a Borowczyk. Vicino/lontano anche qui: è da quando egli era ancora in vita, che I mille occhi ipotizzarono di invitare Boro. A gennaio di quest'anno si è arrivati all'ottima rassegna con catalogo curata da Alberto Pezzotta per il Trieste Film Festival. Ma proprio perché fu ottima dovette sottolineare alcune cose e meno altre che ci premono. Se è vero che, tra i film con Marina Pierro, i due lì presentati (Le Cas étrange du Dr. Jekyll et Miss Osbourne rititolato produttivamente Dr. Jekyll et les femmes, Tout desparaîtra rititolato Cérémonie d'amour) sono le punte, il percorso italiano, adombrato beffardamente in La Bête, con Dalio che telefona al Vaticano, i "convertiti" che vogliono ricostruire le campane di Roma nella campagna francese, i preti che alla fine arrivano come in una parodia di The Exorcist, percorso poi realizzato tra Stendhal, Ovidio, Boccaccio e Raffaello, è un nucleo borowczykiano essenziale. Ai film con Ligia Branice era legata una diretta (poco notata) ispirazione dreyeriana: Rosalie aquittèe, Glossia resurrecta preludono all'Interno di un convento che contiene una voluta negazione dell'esistenza dell'Inferno, e che si conclude con lo stendhaliano personne ne fut punie et l'affaire fut classè. La Pierro che appare tra quella moltitudine di jouissances femminili diventa centro del successivo episodio di Les Heroïnes du mal, in cui suo amante è Gérard Falconetti (riprendendo la riapparizione di un figurante di La Passion de Jeanne d'Arc in Goto, l'île d'amour). Se su Boro la critica italiana ha dei punti di privilegiata consapevolezza (soprattutto nel passaggio da «Filmcritica» a «Fiction», con Michele Mancini e Alessandro Cappabianca), tuttavia delle vie sono rimaste inesplorate. Di quella pista dreyeriana è oggi determinata testimone Marina Pierro, la cui presenza è un altro grande dono che I mille occhi accolgono con riconoscenza.
Vicino/lontano anche nel rapporto tra Claude Autant-Lara e Pier Antonio Quarantotti Gambini. Dei motivi che ci portano a occuparci del regista francese diremo meglio il prossimo anno. Abbiamo voluto anticiparli col film più tentatore: l'apocrifa versione di L'onda dell'incrociatore, via Aurenche e Bost, con la ricostruzione adriatica nel Midi, diventa apocrifa alla massima potenza, con CAL che litiga col produttore e toglie la sua firma, con questa versione di coproduzione italiana che riscrive il francese nell'italiano dello scrittore istriano, con la critica più lungimirante che si spacca di netto: Douchet disgustato, al punto da insultare CAL come maniaco senile che vorrebbe mettere le mani nello slip di Danièle Gaubert (e il regista lo porta in tribunale vincendo simbolicamente la causa con un franco di risarcimento); ma contemporaneamente è il film che spezza l'incantesimo del CAL méchant per i «Cahiers», Delahaye e Narboni se ne appassionano proprio a partire da questo film. Un regista di furori forse mai (né quando fu di sinistra né quando fu di destra) "coerenti", che fu insieme borghese e antiborghese, che dell'essere mangiapreti ha fatto un rito, che ha incuneato le proprie talvolta antisemite idiosincrasie tra l'universo dell'agnostico cattolico Aurenche e quello dell'agnostico protestante Bost... ce n'è abbastanza per attirarci, e il prossimo anno cercheremo di coinvolgere nella riscoperta quanti seppero coltivarla, da Freddy Buache a Chardère e altri di «Positif» a, in Italia, Maurizio Cabona.
Altrettanto su McCarey (che prima di essere il rovescio di CAL per via di religiosità lo è per via della sua trasparenza cinematografica estranea al "caricare" di Autant-Lara) vorremo coinvolgere quanti seppero vederne la grandezza, e di cui in parte i nomi ricorrono tra gli autori di testi in questo catalogo.
Ci piacerà anche cercare contatti con la rassegna che ci prepara Olaf Möller sul cinema tedesco-occidentale. Laddove un ulteriore contatto (Frank Wisbar) sarà con Dreyer stesso. E chi scrive non si priverà di seguire il déracinement germanico della folgorante Belinda Lee.
Altre convergenze (anche via demiurghi e baccanti) troveremo con Cottafavi. Su cui quest'anno c'è più che altro una sottolineatura alla nostra continuità d'attenzione. Con un azzardo: Vittorio De Sica, anche attore per Cottafavi, che nello straordinario I nostri sogni potenziava le fonti cameriniane oltre ogni sociale, diventa maestro di un dopoguerra inteso come difficile rottura, con Sciuscià, film di cui giustamente Welles vide la geniale mise en scène, film da cui Cottafavi (senza che se ne rechino tracce nella fortuna critica) trovò slancio per il progetto non realizzato di tentato produttore per Ladri di biciclette, film infine che oggi ci appare fonte di una parafrasi oltre il sociale nel dileggiato (dagli stessi che osannavano De Sica) Fiamma che non si spegne. È un altro paradosso come il doppio tra Roma ore 11 di De Santis e Tre storie proibite di Genina: due film che s'ignorarono (nella mondanità dei riti critico-festivalieri) ma che in realtà "si guardano", per sottolineare il verbo di un De Sica precedente: nel rapporto De Sica/Cottafavi bisogna proprio partire dal motivo in cui Welles notò la massima genialità registica, quello del cavallo (mai chiave solo "poetica", piuttosto irruzione di un altro mondo nel film, di un'altra vita che è poi, oltre la fiction, quella del cavallo), per vedere nel film di Cottafavi una voluta parafrasi oltre il sociale, tra incarnazione e immagine, col cavallo in dipinto che diventa universo del sublime finale.
Lo ridiciamo: che siano coesistiti Roma ore 11 e Tre storie proibite, Sciuscià e Fiamma che non si spegne, coppie di film che erano vicini e lontani insieme, è la prova numero uno di una (perduta) grandezza del cinema italiano.
Un altro luogo di rapporto vicino/lontano lo possiamo rintracciare in Baratier, su cui questa terza parte non si vuole una conclusione: restano da indagare i corti e i documentari. Il regista ci fa l'onore di offrirci in anteprima la versione definitiva dei suoi Désordre: sessant'anni di tournages e montages a partire da Saint-Germain-des-Près (il n'y a plus d'après après Saint-Germain-des-Près), sessant'anni di presenze divine (dall'incantato anche verso il femminile Audiberti, a Cocteau, a Artaud tra Faits divers di Autant-Lara a Pour en finir avec le jugement de Dieu), di sublimi baccanti (Marie-Hélène Breillat nel suo ballo estatico, Hermine Karagheuz presenza attraversatrice, Juliette Gréco stregante, Emmanuelle Riva attrice audibertiana en amour, Yahne Le Tourmelin danzatrice lettrista, Diane Deriaz acrobata cocteauiana, poi riapparente in L'Araignèe de satin, Alexie Ribes garanzia "odierna" dell'eterno riapparire del femminile)... orbene Bulle, la da noi l'anno scorso gioita Bulle Ogier vi compare non solo nell'Ur-Idoles teatrale, ma (in questo montaggio definitivo) in un'inquadratura con sfondo di schermo bianco che è quello della sala video del Miela, inquadratura ripresa l'anno scorso qui tra noi (alla camera Jackie Raynal). Lo diciamo non solo per orgoglio ma perché testimonia l'infinitezza contenuta in questo montaggio. E poi, se non lo scrivessimo ora qui, nessuno (che paradossalmente volesse "catalogare" dentro l'universo di questo film) potrebbe mai immaginare che non si tratti di una ripresa parisienne ma triestine, con inversione rispetto al set reinventato di Les Régates de San Francisco.
Baratier, cineasta divenuto amico del nostro festival, ci collega anche, con le sue molteplici ispirazioni letterarie e "culturali" (tra cui in L'Aragnèe de satin il testo protosurrealista di Palau) a quel gioco in cui il nostro festival sta sempre più avventurandosi: "del cinema e delle arti" non per cercare contesti nobilitanti ma per godere di quanto è già nell'evidenza del cinema. Castelli, come nelle passate edizioni altre presenze oltre il cinema (e parlando di rabdomanti prima o poi dovremo occuparci di Bazlen, Colli e dell'amico Roberto Palazzi), ci fa vedere che il cinema è ovunque. E le ispirazioni letterarie non vanno considerate pesantezze del cinema, quasi raddoppiando (anche dentro lo spettacolo) la funesta spinta verso la noia di ciò che andrebbe gioito, da parte delle istituzioni scolastiche dai licei alle università. Il "gioco" appunto su Stendhal, Racine o magari Dostojevski, Conrad, Colette, o Shakespeare e Dante, in cui vogliamo avventurarci, è, crediamo, in sintonia profonda con il bisogno del cinema di "cercar storie" senza che ciò lo freni nell'invenzione. Vogliamo concederci una citazione da Once Upon a Honeymoon di McCarey, laddove da Robert Browning si slitta a Schopenhauer a Shakespeare a Irving Berlin. Anche in questi percorsi "letterari" ci attirano le convergenze: Fantasmi a Roma non solo perché almeno un film con Belinda ci voleva ma perché Pietrangeli, oltre che uno dei grandi cineasti italiani, è stato traduttore di Suor Scolastica di Stendhal, scrittore da cui non ha direttamente tratto film. Racine, i cui versi già ascoltammo in L'Amour fou, e che ci piacerà seguire in futuro da Frederick Wiseman a Anna Gaël, apre un contatto con Jean-Claude Rousseau, la cui contiguità con Straub-Huillet è bello intrecciare anche col Corneille di costoro: il film di cui Danièle disse «C'est mon film préferé parce que le plus barbare, et il parle ma langue maternelle» (in «CinémAction» n. 93, 1999, ripreso nel bel testo sul film di Benoît Turquety in «Trafic» n. 66, 2008).
Il parallelo stendhaliano che studiosi più addentro di noi hanno visto in Manzoni ci consentirà di aggiungere ai film varianti sulla serie (apocrifa ma fertile) delle Chroniques italiennes anche le molteplici variazioni, incluse quelle parodistiche e quelle erotiche, sulla Monaca di Monza (col bonus non annunciato dei trailer di due film della fondamentale Globe International, il Gallone e il Corbucci poco dopo in proiezione). E con una licenza anticipiamo un'altra serie spostata in parte sull'Italia, i Crimes celebres di Dumas padre, che consentirà anche un ritorno su Cottafavi.
Senza dilungarci troppo sui mille progetti futuri, ancora poche parole su alcune altre presenze in programma. Sonja Savić fu al nostro festival alcuni anni fa per presentare i suoi video da regista, forse troppo incontrollati ma che anche perciò riuscivano a trasmettere un universo mentale incontrollabile per chiunque. Mai però faremmo nostre le parole (dette a Trieste, per l'anteprima del suo secondo film con l'attrice) di Jan Cvitkovič, che apprezzammo per i suoi due lungometraggi con lei protagonista: «sono certo che lei è più felice ora, ovunque si trovi». La felicità che invece adombriamo nel titolo dell'omaggio si coniuga con quella vocazione di mima, allieva lontana di Marceau, di Sonja: vocazione che rende unico (Unico?) l'erotismo di Una, anche se perciò forse meno flagrante di quelli che ci incatenano a una presenza. L'omaggio a Sonja ci consente anche un omaggio, di cui ci sentivamo debitori, a Vuk Babić, suo regista nell'incompiuto dittico conclusivo della sua breve opera: Vuk, che già volemmo ricordare in occasione della personale Šepit'ko (fu amico di Klimov), rivelò in occasione della nostra preparazione della monografia sull'onda nera jugoslava (rassegna che sta all'origine del ritorno alle invenzioni triestine da parte di chi scrive, dopo i brevi tempi di «La cosa vista») una straordinaria, generosa profusione di piste, che seppe lasciarmi libero di seguire o meno e di cui purtroppo non potè vedere la scelta. L'opera su schermo di Vuk, come quella registica di Sonja, non sono "compiute": il loro valore è inscindibile dalla presenza reale di chi volle crearle, ed è in ciò che Sonja e Vuk ci ricorderanno all'infinito che il cinema è una strana arte, capace certo di perfezioni ma la cui perfezione stessa vive dell'imperfetto: vive insomma della vita (che è come ammettere che può soffrire di malattia, rischiare la morte).
Da Vuk, che morì a Trieste, a Marcella Battelini, nata qui ma morta e seppellita chissà dove (Radacich, che ha seguito le sue piste dopo l'abbandono del cinema e dello spettacolo, mantiene un molto corretto "rispetto della privacy" sperando di scoprire cose più precise). La bella mula che diventa miss e poi aspirante diva (e Angelo Cecchelin nella sua canzone del 1927 Miss Katiza, ricantata nel 1941 da Jole Silvani come Katiza la diva del cinema, si diverte non meno genialmente di un Petrolini a fantasmare nomi di dive, da Italia de' Grandi Magazzini [da Almirante Manzini] a Cicoria Zwanzica [Gloria Swanson] a Leda de Ghisa [Gys], da Jole proseguiti con la coeva Isa Vivanda [Miranda]). La Lola Salvi con cui si ribattezzò Marcella fu una creatura altrettanto fantasmatica: il suo sogno divistico, che la portò a raggiungere a Hollywood Rabagliati, si scontrò con l'incompiutezza. Marcella, uscita dalle grotte carsiche, tornò a nascondersi nella vita, questo cinema ancora più imperfetto. Ma in mezzo fu Hollywood (la Fox) a costringerla a celarsi: è difficile spiegare perché (sfiducia registico-produttiva nelle sue capacità d'attrice? rivalità femminili?) nel film di Walsh (film dell'imperfezione così rara per lui, set del suo mezzo accecamento) sia inquadrata nascondendola, o dalle sue stesse braccia fatte alzare in segno di resa o da altre figure umane che la mettono sullo sfondo. Abbiamo accolto con entusiasmo l'iniziativa di Radacich per il centenario, e già progettiamo di proseguire con lui questa speleologia del cinema con un'altra conterranea, Lia Franca, che le succedette a miss e poi partecipò (con Blasetti, Brignone e Camerini) a quel bel momento di «rinascita» del cinema italiano alle soglie del sonoro.
Ci scusiamo se qualcosa in queste nostre proposte può apparire esoterico, ci sentiamo molto più tentati da vocazioni popolari. Spieghiamo perciò perché in quel percorso Politica dei critici, che quest'anno inauguriamo con tre omaggi, vi sia quella X tra parentesi: per sottolineare che sin dalla prima edizione del festival quel percorso, benché non evidenziato, fu presente. Rovistando nei nostri passati programmi e cataloghi ci siamo accorti di aver in qualche modo trattato di una decina di maestri della critica: Alberto Farassino (cui ora rinnoviamo l'omaggio per Tortura), Jean-André Fieschi (che fu nostro ospite per parlarci della "Lilith" Jean Seberg, e che quest'anno dobbiamo riomaggiare per la sua recente morte), Michele Mancini, Robin Wood, Piero Tortolina, Marco Melani, Jacques Audiberti, e (in forma di scontro su questioni stendhaliane, l'anno scorso) François Truffaut e André Bazin, con giusto numero dieci per quest'ultimo, al di là degli errori faro massimo. Come si vede non si tratta di un "progetto" sistematico, men che meno dogmatico. Possiamo amare anche quanti furono in feroce contrasto: Rohmer e i suoi splendidi pianeti (Domarchi, Demonsablon, Douchet), il Godard critico e cineasta che continua a dividere (anche dentro il comitato di I mille occhi), il Fieschi che si allineò con determinatezza alla svolta di Rivette nei «Cahiers du cinéma», il Delahaye che fu ed è molto più diviso a riguardo, lo Skorecki/Noames che attraversò anarchicamente l'era successiva, daneyana, della rivista, i grandi solitari (Hoveyda, Vecchiali - altro cultore mccareyano), le avanguardie «Présence» (Mourlet, Rissient, Lourcelles), altri solitari disseminati per il mondo (da James Agee a Drouzy, la cui opera su Dreyer ha meriti impagabili), e seppur offesi come dreyeriani da certi loro giudizi, anche i più personali positifisti (a cominciare da Tailleur e dai coniugatori del surrealismo critico)... Una costellazione che, con aggiunte (ciascuno dei membri del nostro comitato ha nomi in più da sostenere), vorremmo continuare ad osservare.
Tra questi nomi vi sono, come si vede nell'elenco, dei solitari italiani di cui siamo stati amici e che ci teniamo a riproporre (per essere enfatici aggiungiamo: alle nuove generazioni). Non temiamo di fare scelte controcorrente, come in tutto il resto dei nostri programmi. Il nostro percorso tra i critici non è una complicità di categoria: è la fiducia che quest'arte demiurgica (la critica cinematografica) possa non essere estranea alle virtù demiurgiche del cinema stesso. Una cosa è poi la stima selettiva (che abbiamo avuto per esempio per Tullio Kezich) e un'altra la condivisione di passioni: che può anche coniugarsi col conflitto, o la presa di distanza, ma riconosce nell'altro spettatore-critico un universo umano-cinematografico in convergenza parallela col nostro. Del triestino Gianni Menon condividevamo al di là di ogni possibile distanza il suo partire dall'amore. Cineasta a suo modo incompiuto, egli ha però profuso in ogni sua realizzazione l'universo dei suoi amori, talvolta originati da fuori dal cinema (l'arte della Callas, ch'egli è capace di sovrimprimere anche sulla sua visione di Gemona a dieci anni dal terremoto). In un programma sui cineclub lo vediamo ritrovarsi insieme a Farassino e Enzo Ungari, attraversatori in epoche diverse dell'avventura «Cinema & Film» che Gianni percorse dall'inizio ai tentativi di non metterle fine, e che ebbe una convergenza nello splendido libro Dibattito su Rossellini da lui curato, che oggi si ripubblica per iniziativa del compartecipante Adriano Aprà per le edizioni Diabasis, e che presenteremo al festival unitamente al varo del Fondo Menon donato dal fratello Vincenzo alla Cineteca del Friuli, che vede tornare Gianni a Gemona come uno splendido fantasma.
Insomma, il nostro festival, senza sforzarsi affatto, scopre nella stessa realtà cittadina e regionale ben più di quanto non sia sotto gli occhi di tutti. Sempre più ci si dimostra che delle rivalità con le altre rassegne cinematografiche non sappiamo (di questo sì) che farcene. Se tutti cerchiamo di fare il massimo, non potremmo desiderare di meglio. Un festival come il nostro, cui capitano in dono anteprime mondiali e internazionali per distrazioni dei maggiori festival italiani e internazionali, non rinuncia a far proprio un film pochi mesi prima presentato a un altro festival cittadino (il Nododocfest), Inês di Delphine Seyrig, quand'esso si rivela appartenente e necessario ai nostri percorsi.
Forse di questi percorsi ci si sta accorgendo. Quanti pontificano su ciò che è di nicchia e ciò che rivelerebbe invece un successo, partono in genere da una ridicola e disonesta tautologia: ciò che va bene va bene, ciò che va male va male. A I mille occhi interessa spostarsi nelle attenzioni, incontrare sguardi, condividere invenzioni, scoprire passioni: insomma il contrario della gestione dell'immutabilità e della rinuncia. E anche se riconoscimenti come l'invito a realizzare un'anteprima romana, partnership in crescita come quelle coi massimi archivi e istituzioni italiani e internazionali, intercettazioni di attenzioni critiche come quella di un enciclopedico volume sui festival («Dekalog» n. 3, a cura di Richard Porton, Wallflower, London & New York 2009), iniziative condivise con gli enti pubblici (incoraggiantemente in crescita col Comune di Trieste, convintamente confermate nel Premio Anno uno sostenuto dalla Provincia, di ribadita fiducia dalla Regione) sono altrettanti successi, vogliamo però prima di tutto segnalare l'arricchirsi di nomi (collaborazioni di vario grado) leggibili nelle pagine del colophon. Quell'elenco di nomi fa parte di ciò che intendiamo come cinema.

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