Presentazione XVI edizione
Outside the Law
di Sergio M. Grmek Germani
It's not my soul, it's my heart.
la protagonista di The Fireworks Woman di Wes Craven
Cinquantaquattro marinai cinesi, minacciati di essere
espulsi dal Canada perché - dopo aver subito
un siluramento - rifiutavano di riprendere il mare,
dichiarando di essersi reincarnati come canadesi.
Spiegarono che, dopo il siluramento in pieno Atlantico,
erano morti e si erano reincarnati sulla nave canadese
che li aveva raccolti. Le autorità canadesi non accettarono
questa dottrina, e i cinesi dovettero riprendere il mare.
Elias Canetti, Il libro contro la morte,
a cura di Ada Vigliani, Adelphi, Milano 2017
L'immagine del cinema non ha cornici, secondo l'insuperabile lezione di André Bazin; è invece una finestra.
Dunque, se I mille occhi scelgono di incorniciare il proprio programma, è solo per aprirlo di più. Quest'anno il primo e l'ultimo film compiuto di Seth Holt saranno il primo e l'ultimo film proiettato al festival. Ci si sono imposti, già dai loro titoli e tantopiù a una visione, come i film destinati a quel ruolo di cornice. Perché il carattere vagante, detournante, senza meta, del primo si sottolinea nella spietatezza del secondo (e mai le figure femminili sono state altrettale bersaglio di un sacrificio rifiutato come in questi e negli altri film del regista, a cominciare da Maggie Smith e Andree Melly nel primo film, fino a Valerie Leon negli incompiuti), e alla fine la strada pericolosa di Danger Route si conclude su un fermo di
fotogramma che trattiene il protagonista, "femminicida" sconfitto, prima della sua uscita di campo dal film e dal cinema. Segni che più evidenti non potrebbero essere di come si tratti di un grande regista da riscoprire, che per noi compone il perfetto poker nel cinema inglese (su cui le schematizzazioni di Godard & C. sono oggi meno veritiere della curiosità marginale di Marker e Tanner, e anche di Dreyer che incluse Brief Encounter di Lean nel suo top ten, apparentemente canonico ma attraversato tra l'altro da un titolo come The Petrified Forest di Mayo), poker in cui unirei Seth Holt a Alfred Hitchcock, Terence Fisher e Michael Powell (il nostro prezioso Olaf Möller, che da anni batteva sulla necessità della rassegna Holt, da quando facemmo l'omaggio al meteorico e fondamentale Michael Reeves, forse ometterebbe il primo di questi tre, e nel suo saggio in catalogo ci guida bene nell'esoterica dei sottovalutati inglesi, cui ci permetteremmo di aggiungere Roy Ward Baker). Seth Holt, nato in Palestina e portante il nome del terzo figlio di Adamo ed Eva, quello che eccede la coppia segnata dall'omicidio di Abele e Caino, ha portato nel gotico inglese, e più generalmente nel cinema di genere thriller e orrorifico, lo stesso segno del doppio del Dybbuk di Michał Waszyn´ski e Edgar G. Ulmer (compagno di detour).
Già da queste considerazioni si conferma il carattere inconcluso dei programmi del festival, quest'anno sottolineatosi in corso d'opera con la necessità di considerare quasi tutte le rassegne come una prima parte che esige seguiti.
Un programma che si costruisce di anno in anno da una sempre più ampia rete di amici e collaboratori, verso i quali la difficoltà del festival è solo quella di non poter realizzare subito tutte le loro stimolanti proposte.
Un programma che parte dal rifiuto sempre più rafforzato che il cinema del nostro presente sia solo quello fatto il giorno prima. Opere e autori che ci tornano dal passato si rivelano per la prima volta contemporanei nella loro inattualità (nell'accezione non banale di opera non consumabile nell'attualità ma ben più perdurante). Se qualcosa manca invece, fatte salve tuttavia numerose eccezioni, al cinema degli ultimi decenni è la capacità di andar oltre un'incancrenita accettazione del cinema come territorio già ben recintato: il fatto che il cinema debordi dagli schermi e dalle sale in numerosi e diffusi mezzi di fruizione e produzione, dalla rete ai cellulari, non lo libera da regole di comunicazione prefissate. Basta invece vedere oggi un film come l'autoremake sonoro di Tod Browning Outside the Law (proiettato al recente Cinema Ritrovato di Bologna) per cogliere la profonda verità del suo stesso titolo, sfuggente a ogni legge inscheletrita.
Ci sono film così anche oggi, per fortuna. Come qualche anno fa considerammo in catalogo la recente proiezione veneziana di The Canyons una "nostra" proiezione, possiamo ben farlo col nuovo film di Paul Schrader First Reformed, cosicché la foto struggente di Amanda Seyfried da questo film è il perfetto incipit visivo di questo testo. Un film di totale libertà verso tutte le religioni e tutte le ideologie, al punto da poter includere nel suo universo cristiano anche le sparizioni dei corpi e le distruzioni che oggi si vorrebbero attribuire solo alle deviazioni dell'islamismo. Un film che ci apparve subito come un McCarey diretto da Wiseman, e in cui del terzetto transcendental del libro giovanile di Schrader è la presenza di
Dreyer, allora la meno fatta propria, a rivelarsi decisiva. Insomma un film che sembra appartenere più agli abbandoni all'imprevisto nelle scelte per I mille occhi che al mainstream del cinema odierno.
Confidiamo che queste scelte siano sempre più percepite non come affare di studiosi del cinema o di film buffs ma prima di tutto come un'esigenza da spettatori.
Ci conforta molto che quest'anno il programma sia segnato dal riferimento a due volumi epocali di recente uscita (presso lo stesso editore), di coloro che da tempo lo scrivente, che pur ha letto nella sua vita troppo poco rispetto ai film visti e quasi nulla rispetto a Bobi Bazlen, considera gli autori capitali del Novecento. Di Carlo Emilio Gadda è uscita la versione filologicamente fedele dei testi confluenti in Eros e Priapo, libro straordinario anche nella sua non mediabilità, e il nostro programma, oltre a includere le più dirette tracce dello scrittore nel cinema (televisione compresa), si espande al film televisivo di Damiano Damiani su Piazzale Loreto (luogo in cui conversero anche Curzio Malaparte e Gianikian-Ricci Lucchi, cineasti che nuovamente in Pays barbare incontrano il grande cinema di Luca Comerio, dato che fu destino del nipote di costui, Paolo Granata, di riprendere l'oltraggio ai corpi travolti dalla storia).
L'altro libro, più azzardante che filologico, riunisce i testi di Elias Canetti per il mai compiuto Il libro contro la morte, che incontra quanto c'è di essenziale nel cinema (anche se non cita Dreyer).
Ci è sembrato che questo libro (che non "presenteremo" ma alla cui lettura rinviamo) si unisca splendidamente alla recente uscita di una coppia di film del maggior cineasta italiano vivente, Ermanno Olmi. Diciamo pure che nel 2017 il dittico costituitosi tra vedete, sono uno di voi e il riemerso, sessantottesco La tentazione del suicidio nell'adolescenza, dopo il precedente pari capolavoro torneranno i prati, pone Olmi tra i cineasti indispensabili. Tutti questi suoi film partono da una committenza istituzionale (che sia la Chiesa cattolica o il MIBACT nel centenario della grande guerra o la clinica psichiatrica della Sandoz) ma diventano outside the law. Il sempre ben azzardante Tatti Sanguineti presume che il film rimasto inedito nel 1968 abbia segnato una sorta di suicidio del "cineasta industriale", diventando quindi per noi oggi il ponte più giusto verso ciò che nel '68 non fu solo apparenza. E chi ritrova il film? la Fondazione Luigi Micheletti di Brescia, uno degli archivi fondamentali per la storia del Novecento, che vara anche il bellissimo progetto musil e accoglie con entusiasmo la proposta dei Mille occhi che la seconda proiezione assoluta del film, dopo quella nella città natia di Basaglia, avvenga a Trieste. Perché quel film, più di Foucault, fa saltare il controllo della psichiatria classica sulle vicende dei corpi mortali, e fa esplodere nel suo montaggio tutto il fiorire di volti, espressioni, sguardi dell'intero cinema di Olmi, corti e lunghi, per la sala o televisivi. La tentazione del suicidio che è nel reale e nel cinema trova qui il rovesciamento contro la morte che è più nel cinema che nel reale.
Una riscoperta che dà un senso forte al lavoro d'archivio. Da tempo il festival lavora gomito a gomito coi più importanti archivi di cinema: la Cineteca del Friuli è sin dall'inizio nostro partner, fondamentale canale verso la FIAF; la Cineteca Nazionale ha quest'anno potenziato la disponibilità nei nostri confronti, consentendoci la proiezione di molte copie rare del cinema italiano; ma sono ottimi anche i rapporti con Cineteca di Bologna, Cineteca Italiana (cui dedichiamo un omaggio per l'anniversario), Museo nazionale del cinema, e tutti gli altri archivi, pubblici e privati, italiani ed esteri, fondamentali per le rassegne tedesche (e per film anche italiani e inglesi conservatisi in Germania), per quella greca e per quella croato-serba, dove si è rinnovata la nostra storica collaborazione con Jugoslovenska kinoteka e Hrvatski filmski savez. Ribadiamo che per noi il lavoro d'archivio non è un recinto per studiosi e "professionisti", e tantomeno uno sguardo rivolto e rinchiuso nel passato. Se noi viventi abbiamo un futuro, anche senza abbandonarci al sogno di ricreare i corpi del passato che fu del grande cosmista Fëdorov, è da qui che dobbiamo partire. Il comunque brillante Bernardo Bertolucci ha ben chiosato in un recente Cinema Ritrovato: siete diventati bravissimi a restaurare i film, ora potreste provarvi anche coi cineasti (e poi anche con gli spettatori, aggiungiamo).
Il programma per percorsi (preferiamo chiamarli così anziché sezioni concluse in se stesse) si apre quest'anno con un omaggio all'amica Luce Vigo, che fu con noi alla prima edizione dei Mille occhi e che ha ritrovato il padre, massimo cineasta, da spettatrice, dopo avervi brevemente convissuto. È una delle presenze che ci hanno abbandonato dall'ultimo festival. Tra esse ricordiamo qui una delle persone più generose mai vissute a Trieste, Rosella Pisciotta, e Nereo Battello che ci visitò l'anno scorso, e un critico che purtroppo incontrammo solo a distanza, Michel Delahaye; e uno scrittore che l'anno scorso evocammo nella rassegna veneta, G.A. Cibotto. E alcuni grandissimi cineasti: Jerry Lewis, che riusciamo a
omaggiare solo con un titolo di percorso; gli sregolatissimi Seijun Suzuki, Andrea Tonacci, Radley Metzger (che indirettamente omaggiamo con l'hard di Wes Craven, dato che è con Gerard Damiano l'altro massimo autore di questo cinema).
Le catalogazioni della morte hanno quest'anno riunito George A. Romero e Tobe Hooper, falcidiando dopo Craven tutto quel nuovo horror americano che (come in Italia Fulci soprattutto) seppe trovare nel disfacimento dei corpi un amoRe aurorale. È scomparso Lazar Stojanović, regista serbo di pochi film "provocatori", e lo uniamo nell'omaggio ai grandi dell'avanguardia croata che ci avevano lasciato in precedenza. Sono scomparsi grandi attori: Gastone Moschin, che avremmo voluto con noi; e John Hurt, Pietro Giordano, Memè Perlini... E miriadi di flagranze femminili: Teresa Ann Savoy, Elsa Martinelli, Jeanne Moreau, Emanuelle Riva, Anita Pallenberg, Mireille Darc, Christine Kaufmann, Margot Hielscher, Carrie Fisher, Rita Renoir, Laura Troschel, Paola Montenero, Solvi Stubing, Gisella Sofio, Anna Maria Gam bineri...
È scomparso anche, in un'atroce vicenda di amore e morte eterodiretta dal dominio economico, un collezionista che qualcuno dei nostri collaboratori conobbe anche personalmente, il ferrarese Giovanni Bartolucci. Al di là del dolore plurimo per le persone, la vicenda di cronaca (se non è osceno generalizzare) ci rinvia anche al carattere segretamente estremo di molto cinema nato in quelle terre.
L'anno scorso nel programma il bellissimo Gente così di Cerchio, rivelandosi anche una coregia di fatto di Giovannino Guareschi, fece cogliere l'universo tutt'altro che superficiale di costui (non a caso ammirato da uno studioso empirista e rabdomantico come il reggiano Mario Manlio Rossi). Ma proviene dall'Emilia anche il cinema radicale di Vittorio Cottafavi. E sono bolognesi i tre registi più intimi di tutto il cinema italiano: Valerio Zurlini, Pier Paolo Pasolini, Ferdinando Maria Poggioli, di cui quest'anno scopriamo la corrispondenza, da nessuno evidenziata, col genovese Pietro Germi: un genovese che ha per tali solo alcuni personaggi, e infatti i protagonisti di Il testimone e Gioventù perduta accennano a questi natali, e il Paul Muller di La città si difende vorrebbe tornarvi dal suo nowhere to go. Poggioli e Germi, un omosessuale e un omofobo che si trovano profondamente intrecciati (parallelismo perfetto col rapporto Pasolini-Zurlini) nel cinema, si sono addirittura suppliti: Germi appunto non ha realizzato film liguri e genovesi bensì veneti o siciliani o romani, e il suo Amici miei, prima di essere tradotto da Monicelli in fiorentino, doveva essere per Germi un film bolognese, laddove Poggioli realizzò il massimo film ligure, Sissignora. Che è anche uno dei massimi film italiani di ogni tempo (solo Mario Orsoni e Gianni Buttafava se n'era no accorti), e il film dal finale più straziante di tutta la storia del cinema insieme a Some Came Running di Minnelli e Imitation of Life di Sirk.
La rassegna pluriennale dei Germogli è nata da una frequentazione sempre più appassionata del grande cinema italiano, outside the law, e ci auguriamo faccia scoprire nel loro fulgore, accanto a quanti il festival ha adeguatamente messo in luce (Rossellini, Zurlini, Cottafavi, Comerio, Genina, Camerini, Matarazzo...), altri cineasti per il presente. Germi ha avuto post mortem parecchie attenzioni, che però ancora non hanno saputo accogliere uno stupendo film sregolato come Le castagne sono buone. Il germogliare del suo cinema ci si apre a raggiera: Poggioli, il grande minore Bianchi, e soprattutto Damiano Damiani, di cui la testimonianza di Enrique Bergier (intercettata da Simone Starace) rivela il forte rapporto con Germi. Di Damiani si realizzò, con lui ancora in vita, una bella rassegna-omaggio al CEC di Udine, con un volume eccellente di Alberto Pezzotta, ma forse solo oggi (per nostra insufficiente ricettività, evidentemente) egli si rivela in tutta la sua forza, al punto che un tardivo film per la tv Mediaset, L'angelo con la pistola, travolge ogni confine da fiction televisiva.
Ricollegandoci a quanto scritto su Olmi, il '68 probabilmente non è stato, come da provocazione di Zurlini (nell'intervista di Gianni Da Campo), «un anno come un altro: viene dopo il '67 e prima del '69». È stato anche per il cinema italiano un anno dopo cui nulla può essere come prima: i grandi autori (tra cui Zurlini,
Damiani e anche il "sociale" De Santis, e il suo allievo Giraldi) hanno saputo attraversarlo con la libertà di tutto il loro cinema; per gran parte degli altri hanno prevalso solo i tic dell'aria del tempo. Un nome su cui ancora vogliamo confrontarci è Elio Petri: i suoi La decima vittima, A ciascuno il suo e Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto sono un trittico stupendo, mentre con Un tranquillo posto di campagna ci sembra insinuarsi una sproporzione tra ambizioni e realizzazioni che forse ci fu anche nei suoi primi film, e temiamo anche negli ulteriori: ma potremmo sbagliarci.
L'accenno a De Santis ci permette di cogliere quel carattere apolide che sovente ha attraversato il cinema italiano, e di cui i set jugoslavi e sovietici del cinema di De Santis sono emblematici.
Un film come l'ultimo di Laurel & Hardy, non solo massimi comici ma massimi cineasti (germogliati da McCarey), ingiustamente strapazzato all'epoca dalla critica, è oggi tra i più coerenti atti del carattere apolide del cinema. Enzo Pio Pignatiello ne ha ben studiato i contesti geopolitici, nella pubblicazione edita in occasione del festival, che presenta un suo tentativo di ricostruire l'integrale versione italiana, con l'ultimo grande doppiaggio di Sordi e Zambuto. E Stanlio e Ollio ci si svelano anche, a sorpresa, tra i grandi cineasti sulla grande guerra, con la scritta 1917 che apre sia Il compagno B... che Venti anni dopo.
Il nostro programma di quest'anno contiene due tasselli di una sponda internazionale del cinema italiano troppo poco nota, quella tedesca, il cinema di Roger Fritz, con la rassegna curata da Draxtra e Vanisian, e quello di un'attrice non solo tra le più belle, Dagmar Lassander, ma splendidamente portata a incrociare alcuni dei momenti più audaci del cinema italiano, dall'erotico all'horror, dei quali essa riunisce bestiari degni di Borges (La lupa mannara, Black Cat, W la foca), e anche quando non è protagonista (e invece lo è, per esempio, la sorprendente Annik Borel) lascia un segno indimenticabile sui film.
Altro apolide è l'egiziano Tewfik Saleh, il cui film attraversa, dall'allora confine tra Siria e Iraq, tutto il mondo dell'esilio, incrociandosi con gli esuli attraverso l'Italia di Pietro Germi (esemplarmente in Il cammino della speranza che percorre la penisola di Paisà non più con lo sguardo dei "liberatori" ma con quello degli stranieri in patria). Occuparsi oggi dell'egiziano Saleh, che ancora poté partire da un panarabismo universalista, è anche il nostro modo di non dimenticare Giulio Regeni.
Solo poche parole per due rassegne straordinarie, per cui si rinvia ai testi in catalogo: quella dedicata a Dimos Theos, a cura di Cecilia Ermini, e quella sull'avanguardia croata e serba, in cui Mila Lazić ha raccolto meraviglie rarissime.
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