Presentazione
Su un'arte ancora ignorata
di Sergio M. Germani
You are invited to respond to this film
through your own films - or in writing -
Dalla didascalia finale di A Question of People di Roberto Rossellini
È terribile, siamo così giovani e abbiamo già scordato tante cose.
Dai dialoghi di Dolci inganni di Alberto Lattuada
Anime e corpi, tutto da rifare, e bisogna cominciare dal corpo.
Voce fuori campo finale di I figli delle macerie di Amedeo Castellazzi
Mi sento come devono sentirsi i morti il giorno
della resurrezione, grati per l'eternità.
Hildegarde Neff doppiata da Lydia Simoneschi nel finale di
Corriere diplomatico (Diplomatic Courier) di Henry Hathaway
Sono le parole che più ci si sono impresse (non le uniche) provenienti dal cinema visto nell'anno che divide la precedente edizione dei Mille occhi da quella imminente, nella quale alcune risuoneranno (o vi si reinscriveranno) e tutte vi troveranno un'eco: a prolungare le ragioni di una proposta di questo festival, per il quale la passione interminabile verso il cinema risiede in quel forte rapporto col reale che sta alla base del cinema, a renderlo tra le arti la più inseparabile dal reale. Non vi è tra queste parole qualcuna proveniente direttamente da Dreyer ma il suo Ordet (La parola appunto) è il fondo di tutto il cinema, come ha riconosciuto recentemente uno dei maggiori critici, Jean Douchet (il cui testo nei «Cahiers du cinéma» n. 700 del maggio 2014 eccede tutta l'applicazione critica della rivista ricongiungendosi al lontano, mirabile testo di Rohmer sul film); e perciò (secondo quel progetto dell'Expanded Dreyer che vorremmo riuscire a compiere) uno degli autori più intransigenti e di rare realizzazioni trova nel cinema d'altri un prolungamento, quando quel cinema si rende indispensabile, verso la più "sprovveduta" delle domande: com'è possibile che l'arte che è incappata nel "miracolo" di far persistere in vita quanto è trascorso non raccolga questa sfida, rilanciandola verso le rassicurazioni religiose e le misere speranze individuali? Le parole dai film di Castellazzi e Hathaway sono luoghi evidenti di questa domanda, e fa piacere il caso con cui ci sono giunte: il corto del primo, programmato l'anno scorso in una rassegna curata da Toffetti, si è rivelato folgorante (e, oltre a replicarlo, abbiamo avviato con Dario Stefanoni una ricerca in progress sul regista celato da maschere e anonimati); il lungometraggio Fox, splendidamente scritto da Casey Robinson e Liam O'Brien, rivisto nel contesto dei film su Trieste, ci è apparso rivelatore non solo sul luogo che ne è il set, ma su come vi entra la doppia presenza femminile (che si raddoppia nelle doppiatrici italiane) di una Patricia Neal americana fiera del proprio "tradimento" e di un'apolide europea che nel suo accento da straniera trova nell'America una fuga. Film dunque geniale nel superare ogni maccartismo, quanto My Son John di Leo McCarey è geniale nello svelarne dall'interno l'implosione.
E così arriviamo al film di Rossellini (sì, di Rossellini, non importa da chi compiuto) che nel 1974, per le Nazioni Unite e con base produttiva americana, diventa a un certo punto quasi film di propaganda sovietico. Rossellini ci ha sempre insegnato che le ideologie passano, il cinema resta. E in quel suo interrogativo sulla molteplicità degli individui che eccede le risorse economiche si unisce al magnifico film dell'ebreo polacco Aleksander Ford (un'altra "replica" dall'anno scorso, in direzione inversa al Castellazzi, dall'anteprima romana al programma triestino), percependo ciò di cui il cinema è essenziale vaso: l'infinità delle presenze, d'ogni luogo e d'ogni tempo, che il cinema vorrebbe accogliere in sé, e su cui non può non contraddire le "ragionevolezze" dei limiti economici e sociali.
Vi sono, nel film di Rossellini, molte inquadrature di presenze (spesso femminili) colte ai limiti del campo e trattenute brevemente in campo. Vi è un procedere interrogativo, a un decennio dall'epocale L'età del ferro (qui proiettato integralmente a 35mm qualche anno fa) che sfidava ogni sicurezza nel pieno dei "progressivi" anni '60.
Vi è, nel film di Aleksander Ford, un filmare un parto da cui potrebbero nascere mille esseri, ciascuno imperdibile.
Ecco il senso del cinema: nella vita quotidiana sospendiamo incessantemente, nella nostra mente, come condizione del poter vivere, la distanza dalle vite trascorse, e anche dall'infinità di vite compresenti eppur ignorate. E quando ci raggiunge la notizia di un disastro, o di un atto di terrore in cui delle vite sono cessate, dei corpi si sono schiacciati e dissolti, la messa tra parentesi di questa perdita continua ad agire. E possiamo immaginare che vi fossero anche presenze fisicamente desiderabili, di cui sapevamo o meno. Il cinema non può mettere nessuna presenza tra parentesi perché quella parentesi diventa il cinema stesso.
Al recente festival di Locarno, seppur concentrati sulla rassegna Titanus (e perciò impossibilitati a vedere film di autori che "ci appartengono" come Lav Diaz e Pedro Costa, come altrove purtroppo ritardiamo la visione degli ultimi Abel Ferrara o Frederick Wiseman, autore ora onorato a Venezia che siamo fieri di aver accolto a Trieste con Cosetta Saba e Fulvio Baglivi, in un evento così poco frequentato da dimostrarci una volta in più quanto ci sia bisogno di un festival che non accetti i limiti di quanto è già noto), siamo riusciti tuttavia a unire in visione - a Locarno - film sempre più grandi di cui la Titanus potrà essere crescentemente orgogliosa, con alcuni dei più folgoranti film recenti, a conferma che tra retrospettive e cinema del presente vi è un unico tempo. Il Premio Anno uno Helena Ignez è tornata con un mediometraggio magnifico, e vogliamo ridarle appuntamento qui per il prossimo anno. I concittadini di Rolle, Godard e Straub, hanno dato due capolavori di vera convergenza parallela, il 3D Adieu au langage da cui volentieri accoglieremmo qui quelle presenze di sguardo animale che esalterebbero il primo piano della lupa prima della sua brutale uccisione in Romolo e Remo di Corbucci; e (del secondo) Kommunisten dove nel finale Danièle Huillet (da Schwarze Sünde) dall'apparizione in immobilità al movimento realizza un neue Welt che si univa splendidamente al festival con la proiezione di Cronaca familiare, che sono felice di essere riuscito a programmare al di là di tutti i dubbi nell'unica copia della versione lunga, già proiettata ai Mille occhi. A conferma che i grandi film non si vedono mai una volta per tutte, per la prima volta ho accolto illimitatamente la massima grandezza del film di Zurlini, dando piena ragione a Paul Vecchiali nel vedervi il massimo film italiano. Per la prima volta nulla del film mi è sembrato concesso a un qualche obbligo verso il testo, e l'improvvisa domanda di Perrin morente a Mastroianni «è questo il comunismo?» che sempre provoca qualche non trattenuta risatina in sala, diventava un momento di genialità assoluta, a congiungersi con Dreyer e Huillet-Straub.
E in altri programmi Titanus (su cui rinviamo al volume curato con Roberto Turigliatto e Simone Starace, oltre che ai vari miei interventi disseminanti l'evento, da «Alias» a «FilmTV») si è colto più che mai il filo che a distanza di un decennio travolge il sociale, congiungendo magnificamente la Marta Toren di Maddalena di Genina alla Daliah Lavi di Il demonio di Rondi. Abbiamo già rilevato come la Titanus, pur ignorando Cottafavi, avesse realizzato sovente l'incarnazione al femminile dell'immagine cinematografica. Basti la rivelazione sublime della Isa Miranda in La carne e l'anima di Strichewsky (ritornante poi alla Titanus in Siamo donne di Zampa e in La corruzione di Bolognini), o della Maria Denis di Cronaca nera di Bianchi (ma si vorrebbe vedere La storia di una capinera di Righelli, primo film della nostra icona Marina Berti in coppia con Claudio Gora, o Malìa di Amato con Anna Proclemer e la Denis, o La guardia del corpo di Bragaglia con Clara Calamai, o Vera Carmi in Villa da vendere e Finalmente sì, e presto almeno vedremo Luisa Ferida in Amore imperiale di Volkov), e della Adriana Benetti di Uno tra la folla di Cerlesi-Tellini. L'epoca patriarcale di Gustavo Lombardo, contrastata dal figlio Goffredo nell'amore per la madre Leda Gys, si è rivelata anche in ciò un'epoca di essenziale "risistemazione" del cinema italiano. Noi ne accogliamo a Trieste un film con Laura Solari e Elli Parvo, Ridi pagliaccio! di Mastrocinque, e per la prima prolunghiamo l'omaggio dell'anno scorso anche con un film tardo, il citato Romolo e Remo in cui è splendida madre dei conflittuali fondatori di Roma.
Oltre a chiosare alcuni altri autori, la tappa Mille occhi della rassegna Titanus dà evidenza all'epoca finale del grande Matarazzo, con film tutti da riscoprire, tra i quali l'ultimo, Amore mio con Eleonora Brown, ripreso da Locarno e anticipante la replica a Roma, è già un film imprescindibile, su cui vanno prolungate indagini e scoperte. Apprendiamo per esempio di una sua distribuzione romena (Dragostea mea) che ci fa desiderare lo avessero conosciuto i grandi autori di quel cinema anni '60-'70, da Tatos a Bratu che in una monografia del 2001 ad Alpe Adria Cinema ebbi a definire il Pietrangeli romeno.
E naturalmente riprendiamo Yvonne Sanson, vera femme de nulle part per cui (lo si vede a ogni apparizione) il cinema è qualcosa in cui ci si può solo perdere. La adoriamo quando nei film minori in cui appare come per caso sta lì in campo a non sapere bene perché (vedasi il ruolo della madre in alcuni degli Al Bano-Romina Power). Solo lei poteva sdoppiarsi in L'angelo bianco di Matarazzo senza essere in nessuno dei due ruoli "se stessa". Solo lei, nei ruoli di madre, lo può essere di tutti e di nessuno. Lo splendore di Gianna Maria Canale, l'erotismo uterino di Eleonora Rossi Drago, lo sguardo sperduto di Marta Toren, la sensualità di Belinda Lee sono incarnazioni totali, laddove l'incertezza di Yvonne Sanson a darsi all'immagine fa sentire una presenza che mai entra del tutto nel cinema. Potrebbe congiungersi alle più fragili Sylvia Lopez, Daniela Rocca... fino alla Rosemary Dexter cui abbiamo dedicato la rassegna avendo appreso da poco della sua morte nel 2010 a Recanati dopo anni di lontananza da quel cinema in cui entrava con uno sguardo trattenuto (freddo, direbbe un insensibile).
Ma il discorso Titanus, proprio perché non ha nulla (per chi scrive) di celebrativo, rimane aperto ad altre scoperte: certamente ancora a lungo di Matarazzo, ma anche di autori appena accennati come alcuni dei citati, e di Ettore M. Fizzarotti, di Guido Brignone che nel programma evochiamo con un film che ben si unirebbe ai suoi Titanus, quell'Inganno la cui Trieste ha davvero un cuore di tenebra, con espliciti richiami (nella sceneggiatura del futurista Bruno Corra, del cameriniano Ivo Perilli e della matarazziana Liana Ferri) all'Africa («gli Stati Uniti d'Europa bisogna farli in Africa»), con una Tina Pica quasi bettedavisiana (in bel richiamo a Io, mammeta e tu di Bragaglia), con una Lili Cerasoli sacrificata nell'aborto clandestino (in un'agonia femminile che la unisce a quelle del Genina di Tre storie proibite, del Cottafavi di Avanzi di galera e del Comencini di Persiane chiuse e La tratta delle bianche nonché dei Gora registici), Lili Cerasoli che ha gli stessi nei di Yvonne Sanson sul mento; e con una canzone in cui Nilla Pizzi presta voce a una non riconosciuta bella attrice: «Inganno fu l'amore, inganno fosti tu, inganno quest'inutile gioventù...». Con Clandestino a Trieste dove la calcata, convincente teatralità di Guido Salvini s'incontra con la bella sceneggiatura di Fabbri e Vasile, e con Trieste cantico d'amore di Calandri (non potendo purtroppo vedere Ombre su Trieste), la città in cui riteniamo di vivere riceve dal cinema degli splendidi doni "in minore". Il film di Calandri finisce quasi come un inconsapevole Gertrud con gli amanti invecchiati, e in tutti questi film (anche nel Costa minore) vi sono presenze fisiche ferite o mostruose. A parte qualche concessione al clima d'epoca, i film (è il dono del cinema) vi sfuggono, basti evocare quanto si ode in quel film di clandestinità globale (girato in parte a Pisorno, in Toscana) che è Clandestino a Trieste: «un sangue misto, mezzo slavo, un po' latino e un po' anglosassone, cioè un romantico»...
La stessa capacità di sfuggire alle committenze propagandistiche si può cogliere in molti film italiani "di genere" sulla prima guerra mondiale. Rinviamo a un'ulteriore rassegna quelli dei "macmahoniani" Freda, Matarazzo e Cottafavi (di cui però accogliamo La trincea televisiva che, in modo quasi incredibile, eccedente ogni equilibrismo partitico, affidava a lui sia una delle prime dirette vidigrafate, capace di diventare anche metatelevisiva, nell'avvio del primo e allora unico Programma Nazionale della RAI, con Sette piccole croci, che l'avvio del Secondo Canale con appunto il film sulla prima guerra mondiale La trincea scritto da Giuseppe Dessì e prodotto da Angelo Romanò, sia poi anche della Terza Rete con il primo film prodottovi, in questa Regione per la Sede diretta da Guido Botteri, cioè Maria Zef da Paola Drigo con protagonista e riscrittore Siro Angeli: ma tutta la vicenda televisiva di Cottafavi, insieme a quelle di Rossellini, Emmer, Blasetti, Bragaglia, dell'ultimo De Benedetti da riscoprire, e di qualcun altro, a cominciare dal dirigente già commediografo Sergio Pugliese, dà alla TV italiana un'incontestabile e ahimè perduta dignità). Negli anni scorsi abbiamo già presentato i film di Giorgio Bianchi sulla guerra, e quest'anno presentiamo quello di Pino Mercanti, la cui vicenda di "soldati dormienti" ben si unisce a Gloria. Apoteosi del Soldato Ignoto, film in cui il discorso sulla guerra non potrebbe essere più atroce, nel seguire il viaggio attraverso il paese dello sguardo perduto del "milite eletto" da una madre come fosse suo figlio e insieme il corpo di tutti i caduti (proiezione su cui abbiamo voluto gli interventi vocali di Francesca Bergamasco, e non certo per qualche obbligo mondano di evento musicale sul muto; sfidiamo anzi la correttezza della velocità di proiezione pur di avere la fisicità pellicolare di questo film unico). Come nel miglior Luca Comerio (quello di Dans la tranchée soprattutto), il documentario nato dalla propaganda diventa sguardo assoluto del cinema. Vi sono molti cadaveri in decomposizione tra le riprese di Comerio, e la loro è presenza di una brutalità irrecuperata.
E rispetto a quella madre che in Gloria "riconosce" il proprio figlio, come la madre folle Liliana Gerace in Torna! di Matarazzo, ci spostiamo sulle madri della voce fuori campo di I figli delle macerie con la loro preghiera che non concede fughe: «che Dio vi salvi dal nostro dolore di madri morte!»: siamo evidentemente in presenza, con questo cortometraggio di Castellazzi, di uno degli atti più sovrani verso la storia umana che il cinema contenga.
Chi scrive ha avuto la fortuna di vedere come primo film della propria infanzia Maddalena di Genina (ricordo anche che chiesi a mia madre cosa significava la parola prostituta udita nel film, e lei mi diede una risposta evasiva, anche perché c'era il film da continuare a guardare). Non ne ho conosciuto il regista, morto poco dopo, ma ho conosciuto suo cugino, Mario Camerini, e considero sempre più questo incontro rivelatore. Ricordo le sue parole schive sulla "grande guerra" cui partecipò con fede da socialista che credeva nell'"ultima tra le guerre", e poi fu coinvolto negli attacchi alla baionetta ordinati da Cadorna, nei quali morì l'amico Gentili (coautore di Le mani ignote) mentre lui, salvandosi, guarderà a tutte le sfide della vita come a delle cose che al confronto potevano essere affrontate con serenità: mai sarebbe stato agitato sul set come per esempio Soldati; ma nemmeno avrebbe pensato a dei film su quella guerra (che invece Genina, che da essa rimase distante, poté girare). Ma possono bastare le immagini di guerra che egli gira per I promessi sposi (dove un neonato cerca di succhiare il seno della madre uccisa) o l'insofferenza con cui si rassegna a girare quelle dell'impresa africana di Il grande appello (dove ciò che gli giustificò di girare il film fu lo spezzare il disco di Giovinezza). Dal volume di ricordi di Elsa De Giorgi, che s'intreccia con quello di Maria Denis, si apprende l'angoscia di Camerini al riapparire della (seconda) guerra, altra carneficina di cui sono immagini estreme quelle sulle Fosse Ardeatine in cui si decompone il corpo di Emanuele Caracciolo, cineasta da riscoprire.
Di Genina, che pure apparve sprovveduto di fronte alle ideologie, ci resta un cinema tra i più radicali nel percepire l'aggressione della distruzione sulla vita.
Abbiamo voluto mettere la rassegna sulla prima guerra mondiale sotto il segno di Elias Canetti, perché, oltre gli scrittori che hanno trattato direttamente quella vicenda (da Kraus a Gadda; ma rimandiamo ai bei testi di Mario Isnenghi e, su «Il Piccolo», di Fabio Cescutti, che rievocano i molteplici destini di scrittori e artisti caduti), Canetti indica in quelle masse di morti compresenti ai viventi (con forza filosofica superiore alla generosa utopia di Aldo Capitini) una fuoriuscita "dreyeriana" dagli esiti mortali della storia.
Ci sembra che il programma del festival di quest'anno espliciti più che mai come non vi sia distanza tra le epoche del cinema, esse sono compresenti nelle visioni di oggi, e il festival si rende luogo di questo riapparire.
Ci fa piacere che, oltre ad aver visto tradotta anche in amicizia la presenza di cineasti frequentati nelle precedenti edizioni (come Diane Sara, che ci visiterà da spettatrice, e Thomas Jenkoe, Roberto Caielli...), cogliamo anche quest'anno delle presenze da intercettare nel cinema che si fa oggi. Tariq Teguia, premio Anno uno, rende un unico universo cinema europeo, africano e americano, il suo è il cinema di quel pianeta che seppe cogliere Rossellini (ricordiamo le stupide risatine dei postsessantottini quando alla Mostra di Pesaro si vide per la prima volta la sua intervista ad Allende, e alla splendida domanda-incipit sulla terra-navicella con la sua umanità che vaga nello spazio, le parole del sommo Roberto furono sommerse dai "buuuh"). Teguia dà il miglior flusso ai movimenti, quelli delle primavere arabe, non si adagia su quanto le ideologie dominanti cavalcano dimostrando ogni volta di poterne essere solo travolte (e dopo aver incoraggiato ogni separatismo e ogni fondamentalismo, non sanno cosa fare di fronte ai loro esiti). Il film di Teguia si traduce in un lirismo anarchico, che a Trieste vorremmo vedessero anche i riscopritori di figure come Umberto Tommasini, Camillo Berneri e Luigi Calligaris (nel generoso documentario di Ivan Bormann e Fabio Toich).
Ma già lo splendido Urla mute realizzato da Alessandra Vanzi (con noi anche in un omaggio alla madre poetessa, pittrice e meteorica attrice, messo in scena con la dolcemente furiosa Patrizia Bettini), e dall'ultimo Alberto Grifi, è un film che travolge tutte quelle aggressioni alla presenza femminile che malintese religioni innestano sulle arretratezze patriarcali. L'atto di quel film, che proponiamo con entusiasmo, può congiungersi a Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow, e al fugace transito terreno di Forugh Farrokhzad, grande poetessa e cineasta iraniana, che per noi conferma come tra i momenti del cinema più alti vi siano delle creatrici donne (Larisa Šepit'ko, Kinuyo Tanaka).
Pur sapendo che molti vedono nella durezza delle immagini pornografiche una convergenza complice con le violenze reali sui corpi femminili, ci sembra che su questo terreno agisca qualcosa che richiede di vedere nel cinema uno sguardo lenitore (come ha ben inteso il già in passato evocato Paul Schrader). Quando sono Rony Daopoulo o Annabella Miscuglio (cui preannunciamo un omaggio), o Carole Roussopoulos e la Delphine Seyrig regista (da noi in passato percorse) a sottolineare la violenza che c'è nell'immagine, il loro sguardo coglie una verità. Ma quando ciò si traduce in doxa, allora sono le immagini che turbano a imporsi come più vere. Siamo lieti di riproporre, per la prima e unica volta dalla coeva proiezione al Salso Film Festival, I fantasmi del fallo che è uno degli sguardi più veri su un set hard (che per il gruppo di autrici italiane compiva un'ideale trilogia con Processo per stupro e AAA offresi, lo stupidamente cancellato film sulla prostituzione con Véronique Lacroix). Trovo nel «Filmcritica» del gennaio 1983, nel referendum sui migliori film dell'anno, una mia menzione di I fantasmi del fallo che vi notava «la nostalgia della finzione di Dompat Sejourney e la conferma dell'estraneità alla finzione di Sabrina Mastrolorenzi», ovvero i due poli che nell'hard si esplicitano ma che sono la verità di tutto il cinema. Sono per me tra le ragioni profonde per cui l'hard "doveva" apparire nel cinema: è ovvio che in esso agiscono anche le ideologie del sessismo, le gabbie del sociale (evidenti negli hard "terzomondisti" di turismo sessuale, che il capofila dell'hard italiano Aristide Massaccesi ha applicato seppur con deviazioni; o oggi nel modo in cui la caduta dei muri ha reso Russia e Ucraina, Ungheria e Repubblica Ceca tra i luoghi capitali di un hard di flagranze di corpi). Ed è ovvio che quasi sempre i realizzatori dell'hard ne colgono solo i moventi più biechi, che è difficile trovare degli hard che siano compiutamente grandi film, ma ciò conferma che questo cinema sintomatizza il fatto che nell'immagine (ben più dell'intera immagine) conta il punctum che ci rende una presenza centrale, e non solo come focalizzazione di un atto masturbatorio. Oggi la moltiplicazione accentuata delle immagini hard in rete rivela quell'infinità di presenze di cui il cinema si è da sempre eletto rabdomante. C'intenerisce l'affezione di Grattarola e Napoli (autori di un volume-summa tra i più indispensabili sul cinema italiano, e che siamo lieti di presentare insieme ad alcuni altri volumi "enciclopedici") verso il primo hard italiano ancora intrecciato ai generi, alle forme narrative e alle presenze attoriali del precedente cinema italiano; tuttavia riteniamo che la seconda fase non fosse solo più cinica e talvolta indifendibile, ma anche un esito necessario nel centrarsi sulle presenze oltre i residui di professionalità interpretativa, talvolta aggredendole ma anche rendendole più centripete all'immagine.
Quando abbiamo letto frettolose cronache e solitamente inaffidabili echi online sulla performance al Musée d'Orsay della lussemburghese Deborah De Robertis sotto il dipinto di Courbet, ci è sembrata subito una realizzazione fuori dell'ordinario, e secondo l'abitudine di non accontentarci delle chiavi di lettura più ovvie («provocazione», «esibizionismo» e affini) abbiamo cercato di vederne il video, e vi abbiamo colto un'intensità vera: non solo l'artista aveva avuto il coraggio di dire implicitamente «l'origine du monde c'est moi» (gesto che davvero ogni corpo femminile reale pretenderebbe) ma in quella spalancatura realizzava un approdo inverso alla secolare vicenda della pittura, in cui i corpi "preesistenti" nel reale rimanevano fuori campo rispetto al loro divenire dipinto, e vi univa un richiamo all'Ave Maria di Schubert per la voce di Maria Callas, e un bel testo, detto incessantemente, in cui riecheggia un «je suis tous les femmes... je veux que tu me reconnaisses». E poi, a fronte dell'intervento censorio, lo sguardo fermamente disarmante e disarmato di Deborah è il segno della sua verità. La censura (ne sappiamo qualcosa da tutte le vicende anche cinematografiche) può ben diventare sottolineatrice delle ragioni di ciò che censura. Grazie a Deborah, I mille occhi potranno porre al proprio centro l'origine del mondo che già vi si trovava.
L'artista lussemburghese (che più che alle parole che le si chiedono sulla propria opera si affida al farla nella sua evidenza, giungendo a dirci commoventemente, alla richiesta di una biofilmografia, di non avere un passato, anche se su Vimeo possiamo vederne altri video e un ritratto, certamente degli abbozzi rispetto alla recente performance, ma in cui tuttavia, in Les hommes de l'art, in una delle video-interviste a personaggi maschili appare in uno specchio in tutta la sua flagranza) opera su un territorio che va oltre lo schermo del cinema, ma come ci capitò in varie proiezioni passate del festival (per esempio con i video di Breda Beban nati per le gallerie d'arte) e come avverrà più volte quest'anno (con il film di Vanzi-Grifi e quello di Maresco-Scaldati nati a teatro), siamo convinti che lo schermo rilancerà ulteriormente la forza di queste produzioni (si è visto che può rilanciare in forza anche le debolezze: il video così mondano di Paris Hilton vi diventava auratico; e confidiamo che il film in uscita di Maresco su Berlusconi, da noi anticipato l'anno scorso, renda auratico Silvio superando i sottotesti - rispetto al reale - da Moretti in giù).
Da una giovane autrice sarda (che anche perciò auspichiamo realizzi un incontro con l'opera di De Seta), Claudia Marelli, arriva al festival il dono del film che contiene uno dei più bei passaggi dal fuori-campo all'ingresso in campo, quando Emmaus (con la giusta evocazione biblica del nome) si esplicita da documentario a flagranza di presenze, e l'autrice da intervistatrice fuori campo vi diventa "attrice", sguardo che si fa vedere.
Nel programma di quest'anno saranno inoltre esplicitamente presenti i due poli più geniali del pensiero sul cinema: quello di Rohmer che di Bazin compie la rivoluzione copernicana nello sguardo sul cinema esigentevi il reale, e quello di «Présence du cinéma» che, come ben dice Olaf Möller (ma già lo evidenziò Louis Skorecki), fu la vera politique des auteurs. Benché si debba completarla con le basi hitchcocko-hawksiane e rosselliniane-renoiriane di Rivette, con l'opzione Minnelli-Cukor di Domarchi-Douchet, con le felici intuizioni di Delahaye e Fieschi, con l'immergersi in Lubitsch di Truffaut, con le intuizioni uniche di Godard, con la centralità fordiana in Tailleur e Comolli... e, aggiungiamo, con il gesto di Angelo Raja Humouda che da questa Italia per primo indicò direzioni non derivate: dedicò una rassegna a Pabst, elesse la centralità di Griffith, e fino alla morte s'impose la lucida follia di cogliere nel cinema il luogo in cui la storia umana trovava interpretazioni vere (ricordo ancora una proiezione in cui uscì convinto di The Search di Zinnemann, ricordo il suo occuparsi di pellerosse e Rosa Bianca, e ci resta l'evocazione di Livio Jacob e Piera Patat del suo dedicarsi a un "regista ONU" su cui non troviamo nulla da nessuna parte, certo Joseph O'Brien). Scusaci, Angelo, per tutti i tuoi doni che non abbiamo saputo accogliere.
Della citata grande rivista «Présence du cinéma» ospitiamo quest'anno i due critici più marcanti: il fondatore della serie macmahoniana Michel Mourlet già autore sui «Cahiers» dell'aurorale testo Sur un art ignoré poi nel volume omonimo, e (accogliendolo attraverso i suoi testi) Jacques Lourcelles. Sono loro, oltre ad aver indicato nel cinema americano alcuni dei massimi autori sino ad allora liquidati come "professionisti" da una critica insensibile (e tra essi Ida Lupino e l'Edward Ludwig su cui ci auguriamo di poter tornare in futuro), ad aver riconosciuto i geni del cinema italiano che la critica italica dileggiava (Cottafavi, Freda, Matarazzo). Il caso Eichhorn, poco più che nominato in un elenco del pantheon, è la prova di come gli azzardi possano essere serissimi se chi li fa è un bravo giocatore (a proposito del poker d'assi indicato dalla rivista in Lang, Preminger, Losey e Walsh, cui oggi si possono magari preferire McCarey e Dwan, ma l'indicazione conserva tutta la sua fertilità). La proiezione di un raro Eichhorn in versione italiana, proveniente dalla Cineteca Griffith fondata da Humouda, ci consentirà anche una chiosa derobertisiana (ci riferiamo a Francesco, regista di cui abbiamo dovuto rinviare la personale per lo stato molto incompleto del proiettabile) poiché ne è protagonista la brasiliana Vanja Orico, che nello stesso periodo gira, oltre a un altro Eichhorn, Yalis la vergine del Roncador, convergente esotismo del cineasta pugliese.
Il pensiero di Rohmer, che prima di divenire grande regista fu grande teorico del cinema, è ripreso esplicitamente nel programma attraverso il suo testo fondamentale Le celluloïd et le marbre. I mille occhi si sono da tempo precisati nel rapporto tra cinema e arti, e riteniamo d'intendere questo rapporto come qualcosa che già appartiene al cinema, non certo come un rapporto mimetico o di subordinazione culturale. Raffaele Andreassi è stato con Luciano Emmer il regista italiano che più conseguentemente ha inteso l'appartenenza del cinema all'universo delle arti. Forse è un limite estrapolare solo i lungometraggi (di cui due "di finzione") dalla sua ampia produzione in cui si superano le barriere tra cinema e televisione, tra documentario e finzione, e tra durate dalla più breve alla più lunga. Ma lo facciamo nella consapevolezza che Andreassi vada conosciuto tutto, e che partire dai lungometraggi sia solo una sottolineatura della sua forza. Come a dire che il cinema italiano trova in lui (e in Elio Piccon) una via radicale dentro lo stesso lungometraggio a soggetto. Vederli per credere: Adriano Aprà ha da tempo indicato l'importanza del regista, e noi riteniamo che I piaceri proibiti si unisca a Amore mio di Matarazzo e Anima nera di Rossellini tra le punte del cinema italiano degli anni '60: delle punte consapevoli di ciò che l'acquisizione di centralità nel cinema italiano di Antonioni, Visconti e del miglior Fellini (cioè La dolce vita) ha rappresentato, ma allo stesso tempo capaci di andarvi oltre. Forse vedremo prima o poi la ricostruzione di ciò che L'amore povero sarebbe stato, ma già nella sua mutazione in I piaceri proibiti siamo in presenza di un film straordinario.
Del citato Antonioni vedremo quest'anno i due film più brevi in assoluto: un ritrovamento inaspettato che ci confermerà (come disse a Locarno Bernard Eisenschitz introducendo Le amiche) che si è trattato di un regista di un'ampiezza di registri superiore alla sua fama di autorialità. Egli è stato anche il regista che più ha percepito (da marxiano più dei marxisti) la base economica strutturale della realtà italiana: da Sette canne, un vestito a Il grido attraverso la trilogia a Il deserto rosso. Che questo regista etichettato negli anni '60 «dell'incomunicabilità» sia stato scelto qualche anno prima per promuovere l'ingresso nella comunicazione giornalistica dell'ENI di Enrico Mattei è (forse per tramite del parmense Pietro Bianchi, critico italiano tra i meno ovvi coinvolto nell'impresa di «Il Giorno» che ben poteva scommettere sul ferrarese) una bella evidenziazione di come il cinema italiano, finché ha saputo essere anche specchio dell'Italia, si è nutrito di felici paradossi. Questi due corti (unica commedia di Antonioni, fiero di essere spiritoso nella vita anche se i film non sembravano darlo a vedere e tuttalpiù venivano presi per involontariamente comici, e unico suo film di montaggio) sono realizzati l'anno prima del suicidio di un operaio in paesaggio industriale in Il grido.
La presenza del cinema italiano nei nostri programmi è sempre più estesa, dunque: anche se il Ministero dei Beni Culturali non ci finanzia col motivo inventato che non promuoveremmo sufficientemente il cinema italiano. Ma, per quanto ci si possa passare in serie B o persino C in minacciati "parametri oggettivi" dei finanziamenti pubblici, noi di cinema italiano continueremo a occuparci perché è la nostra autentica Heimat: il cinema italiano in cui crediamo, beninteso, del passato e del presente, non un cinema che solo per il fatto di essere prodotto qui vorrebbe rappresentare il paese. Si studino, questi signori, in cosa è consistita la grandezza della Titanus, che non temeva che per ogni film i conti non quadrassero, che anzi rimescolava le carte sapendo che il cinema non è l'arte di far quadrare i conti.
Anche gli sbagli di Goffredo Lombardo meritano rispetto. Se non si è accorto di Cottafavi o Andreassi, se (pur col viatico del grande Zurlini) non è andato oltre il varo progettuale per l'"allievo" Gianni Da Campo (il grande autore veneziano che l'anno scorso abbiamo omaggiato e di cui piangiamo la perdita), se si è erroneamente disamorato di Matarazzo come se il suo nome toccasse troppo una resa dei conti col padre Gustavo, egli ha non solo lasciato un insieme di opere notevole (molti a Locarno si stupivano dell'ampiezza di realizzazioni di valore), ha anche lasciato la cocciuta persistenza di un marchio in cui vicenda familiare e vicenda produttiva s'intrecciavano.
Tuttavia, quanto I mille occhi riescono a realizzare è solo una minima parte di quanto andrebbe fatto (e, se ci fosse una maggior consapevolezza generale, potrebbe essere davvero fatto).
Il rapporto tra campo e fuori-campo è alla base del cinema, e l'infinitezza del secondo non è in contraddizione col desiderio di estendere il primo.
Concludiamo anche quest'anno ricordando il passaggio al grande fuori-campo di cineasti amati: oltre al citato Da Campo, il sommo Alain Resnais, Augusto Tretti, Roman Vlad, Giuliano Gemma (che omaggeremo con L'arciere di fuoco di Ferroni in cui occasionalmente si autodoppia), Peter O'Toole, Arnoldo Foà, Mickey Rooney, e una miriade di presenze femminili: Norma Bengell, Rossana Podestà, Eleanor Parker, Lorella De Luca, Aiche Nana, Kate O'Mara, Peaches Geldof, Federica Giacomini, Tatijana Samoilova, Ultra Violet, Lauren Bacall, Veronica Lazar... (elenco di puncta estraneo a pretese di completezza).
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