Per una riflessione sul futuro dei festival
Si è conclusa a Trieste la XXIV edizione del maggiore dei festival che si svolgono a Trieste, il Trieste Film Festival realizzato da Alpe Adria Cinema, ultimo e insieme primo dei festival nel calendario annuale degli eventi cinematografici che fanno riferimento alla Casa del Cinema di Trieste.
Segnaliamo a riguardo la corrispondenza conclusiva su Il manifesto del 25 gennaio u.s., inviata in veste di giornalista dal direttore di I mille occhi, in quanto essa cerca di toccare i punti problematici dell'universo dei festival del cinema, non solo a Trieste. Temi come quello del rapporto tra cinema del passato e del presente nell'offerta al pubblico di oggi, o quello dei formati originali delle opere come parte costitutiva dell'evento fisico (e non virtuale) che è un festival, ci sembrano tali da dover essere affrontati, senza rivendicazioni di parte (dato che I mille occhi s'incentrano particolarmente su queste opzioni, insieme a quella del rapporto tra cinema e arti), essendo appunto un tema connaturato alla forma festival e dunque auspicabilmente condivisibile. La pluralità dei festival triestini ci sembra sorta proprio dalla volontà di dare impronte coerenti alla forma festival, ritenendo che essa non sia in estinzione, un'attività di spettacolo residuale, bensì da rilanciare perché è quella che nell'ambito della cultura cinematografica meglio consente, unendosi anche al territorio degli archivi e delle collezioni, di ricreare un rapporto tra immagini e vita di tutti i giorni. Tema che va a unirsi a quello del vivere civile, e in questo momento di scadenze elettorali favoriremo un confronto a riguardo anche sul nostro blog.
IL MANIFESTO :
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Paesaggi oltre i confini
APERTURA - SERGIO M. GERMANI
TRIESTE
Tra i titoli più forti del programma, la sorpresa di «Aurora», diretto da di Kristina Buozyte. Nel panorama italiano, «Bellas mariposas» di Mereu
Alla ventiquattresima edizione, quindi alla vigilia di un anniversario importante, il Trieste Film Festival realizzato da Alpe Adria Cinema ha evidenziato un'ulteriore crescita pur tra le molte pressioni legate alle cosiddette «difficoltà del momento». Come per altre manifestazioni culturali, c'è una pericolosa convergenza tra politica dei tagli e «fuoco amico» di chi incoraggia solo successi di facciata. Dato che la storia del festival si è fondata su un lavoro di ricerca, di scoperta del non ancora noto, che ha permesso di creare un nuovo pubblico attento a quanto nessuno gli aveva fatto conoscere prima, chiedere ora di realizzare solo quanto porta immediatamente risultati numerici, con un'idea di pubblico residuale, è un atto di grande miopia nelle politiche culturali dei pubblici amministratori, purtroppo spesso trasversale agli schieramenti.
Per fortuna il festival è riuscito in gran parte a sfuggire alla pressione, potenziando un programma di qualità, e bisogna solo rammaricarsi del sacrificio auspicabilmente non definitivo delle retrospettive, che non erano in passato ghettizzate nell'attenzione del pubblico ma ne costituivano elemento essenziale. Forse è proprio la parola retrospettiva a incutere timori, quindi semmai bisognerebbe mescolare maggiormente cinema del passato e del presente per il pubblico di oggi. Certo che ciò diventa uno sforzo in controtendenza rispetto al fatto che la grande sala Tripcovich finalmente ottenuta dal festival, e che consente di ospitare fino a 900 spettatori a proiezione, non è attrezzabile per proiezioni su pellicola e deve proiettare in Hd anche i film nati a 35 millimetri. L'altra sala, il classico Teatro Miela, ha ospitato gli unici quattro film del programma proiettati a 35millimetri, col paradosso che però Archeo di Cvitkovic, essendo in formato panoramico, si rimpiccioliva anziché ingrandirsi date le dimensioni dello schermo disponibile. Provate a dire queste cose a qualche amministratore e vi prenderanno per dei feticisti anziché cercare di capire che per un festival i formati originali non sono un lusso ma fanno parte del carattere fisico che un evento richiede, di attiva compresenza tra immagini su schermo, ospiti dal vivo e pubblico.
Rispetto a queste difficoltà strutturali il festival ha fatto persino dei miracoli, potenziando anche un gruppo di lavoro competente, e unendo alla direzione di Annamaria Percavassi, fondatrice del festival, quella di Fabrizio Grosoli, da anni curatore di varie sezioni. Ciò ha favorito una reinvenzione delle sezioni in programma tutto sommato vivace: per esempio con la scelta delle «Sorprese di genere», per le quali bisognerebbe solo evitare che impediscano di mettere in concorso i film qui inclusi. Se il film di Loznica In the Fog, che ha vinto il premio principale, ha raggiunto un obiettivo molto congeniale al festival che gli aveva dedicato in passato una personale, il lituano Aurora di Kristina Buozyte avrebbe potuto legittimamente competere se la collocazione tra le «Sorprese di genere» non l'avesse posto fuori concorso. Probabilmente il festival aveva paura, adottando un modello affine a quello del Far East Film Festival, di lasciarlo prevalere sulla selezione in concorso, anche di fronte a un film in cui operazione di genere e operazione d'autore (d'autrice, per la precisione) si compenetravano.
Inoltre l'idea di una selezione di film italiani recenti è stata efficace, ed ha permesso sia di farli vedere agli ospiti stranieri che di rivelare come quei film siano spesso stranieri in patria per un pubblico che non ha occasioni di vederli.
E, come succede quando un festival funziona, si creavano collegamenti nel programma oltre le sezioni. Il serbo Klip di Maja Milos, in concorso, storia di adolescenti con immagini hard, non andava purtroppo oltre a un cinema che si fa spugna delle immagini oggi diffuse, tra rete e telefonini, e avrebbe avuto molto da imparare dall'ultimo Salvatore Mereu Bellas mariposas presentato nella sezione italiana, nel quale le presenze delle giovani protagoniste (e di tutti gli attori) diventano vitali interagendo con la tensione formale del film: una tensione che, nel rapporto tra frontalità e punti di fuga degli sguardi, ci ha evocato quella postneorealistica del grande Giuseppe De Santis di Non c'è pace tra gli ulivi. E peccato anche qui che un film di un colore così materico si sia dovuto editare in digitale.
In altri casi il palinsesto evidenziava bene gli scambi tra film, come tra il thriller serbo di Miroslav Terzic Ustanicka ulica, che reinventa le vicende dei criminali delle recenti guerre jugoslave (come sapevano fare già su quelli della seconda guerra mondiale i film di Fadil Hadzic), e la vicenda tedesca di un apolide serbo, nel documentario Dragan Wende - West Berlin di Lena Müller e Dragan von Petrovic, vincitore della sezione.
Ma altre volte, giustamente, gli echi si creavano alla visione. L'impressionante e insieme trasparente Timavo musicato da Franco Battiato, che in Il viaggio della signorina Vila di Elisabetta Sgarbi contraddice l'immagine marina di Trieste (come sottolinea l'intervento preciso nel film di Claudio Magris), si prolungava nel fiume che incombe sul paesaggio boscoso del film di Cvitkovic Archeo dove uno dei più interessanti registi sloveni, creando un film senza dialoghi, fa qualcosa di diverso da un'apparente furbizia internazionale: girato sui confini (tra Italia e Slovenia, tra nucleo familiare e irrisolvibilità dell'individuo, tra umanità e natura) Archeo sa anche contraddire la precedente vocazione registica ai «dialoghi naturali» e alle «storie di personaggi», con una sorta di accanimento oltre l'esito apparente e voluto di un compimento religioso.
Questi due bei film di incerti paesaggi, oltre a ricordarcene altri visti in passato al festival (quelli romeni di Tatos o quelli serbi di Mica Popovic, per esempio), si sono ben uniti col residuo di retrospettiva che il programma conteneva, l'omaggio all'attrice triestina Laura Solari nel centenario della nascita (progetto della Casa del cinema di Trieste che proseguirà in altri due festival, Maremetraggio e I mille occhi). Il film prescelto per avviare l'omaggio era infatti Terra di nessuno di Mario Baffico, che nel 1939 interagiva in modo molto dialettico con l'idea di terre ricreate da un duce, riapprodando a una «no man's land» echeggiante il western. E la scena di morte della protagonista, con una splendida Solari, anticipava nel festival la tensione su cui si dilatano le due ore del menzionato film lituano Aurora con la sua sensuale contraddizione della distanza nella morte. La protagonista infatti, la notevole Jurga Jutaité, è una «bella addormentata» molto più estremizzata che in Bellocchio, e rivela ancora una volta il riferimento centrale del dreyeriano Ordet per tutto il cinema (ma persino per il recente video musicale La morte non esiste dei Baustelle).
Peccato forse che il lenzuolo di Veronica che la ricopre nel finale diventi una chiusa troppo conclusiva, perché per il resto la regista Kristina Buozyté dialoga in modo molto vitale con gli esiti da «visual consultant» del cosceneggiatore Bruno Samper, mai concludendo il film in essi, ma non a caso riferendosi al maestro nazionale Sarunas Bartas, qui attore. Una bella sorpresa (non solo di genere) che il festival, essendo riuscito a strappare al conterraneo Science+Fiction, avrebbe potuto includere tra i competitori.
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