Bava Mario
(Sanremo, 31 luglio 1914 - Roma, 25 aprile 1980)
Figlio di Eugenio Bava, esordisce giovanissimo nel cinema,
prima come realizzatore grafico di titoli di testa e poi come operatore,
lavorando anche con Francesco De Robertis e Roberto Rossellini (La nave bianca, 1941). Negli anni del
Dopoguerra si afferma rapidamente come direttore della fotografia, collaborando
in particolare con Steno e Monicelli (Guardie
e ladri, 1951), Mario Costa (Perdonami!,
1953), Aldo Fabrizi (Hanno rubato un tram,
1954), ma anche Georg W. Pabst (Cose da
pazzi, 1954) e Raoul Walsh (Esther e
il re, 1960). I due registi che meglio assecondano la vena creativa di Bava
sono però Pietro Francisci (con il quale rilancia il filone del peplum, Le fatiche di Ercole, 1958, ed Ercole e la regina di Lidia, 1959) e
soprattutto Riccardo Freda, che inaugura invece l'horror all'italiana con I vampiri (1956) e Caltiki, il mostro infernale (1959). In questi film, oltre a
occuparsi della fotografia, Bava cura anche gli effetti speciali e, in più di
un'occasione, si sostituisce ai registi stessi, preparando inconsapevolmente il
terreno per il suo esordio da autore tout
court, con La maschera del demonio (1960).
Da qui in poi, pur con qualche incursione nella parodia (Le spie vengono dal semifreddo, 1966), nell'avventuroso (Gli invasori, 1961) e nel western (La strada per Fort Alamo, 1964), si
concentra quasi maniacalmente su fantastico, declinato in tutte le sue
sfumature: dal mitologico (Ercole al
centro delle terra, 1961) alla rivisitazione ironica dei classici (I tre volti della paura, 1963), dal thriller (Sei donne per l'assassino, 1964) al
gotico (Operazione paura, 1966),
spesso anticipando filoni di successo come l'horror fantascientifico (Terrore nello spazio, 1965) o lo slasher (Reazione a catena, 1971). I suoi film, quasi sempre a basso budget
e realizzati con espedienti artigianali, non incontrano in genere i favori
della stampa nostrana, mentre negli Stati Uniti e in Francia trovano mercati
molto più ricettivi e una critica che lentamente inizia a riconoscere uno stile
personale, fatto di sperimentazioni visive in chiave pop (Diabolik, 1968) ma anche di apertura verso il delirio puro (La frusta e il corpo, 1963).
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